Cemento e agroalimentare: il business d’oro delle ecomafie. Sempre più agguerrite

Il business dell’ecomafia cresce ancora e raggiunge quota 16,6 miliardi di euro; 368 il numero dei clan censiti. Nel 2018 l’impennata maggiore si è avuta nei reati nel ciclo del cemento e nell’agroalimentare. In aumento anche quelli nel settore dei rifiuti e contro gli animali.

Cemento e agroalimentare: il business d'oro delle ecomafie. Sempre più agguerrite

Nella Penisola continua l’attacco di ecocriminali ed ecomafiosi nei confronti dell’ambiente: ciclo illegale del cemento e dei rifiuti, filiera agroalimentare e racket degli animali sono i settori prediletti dalla mano criminale che continua a fare super affari d’oro. La denuncia, impietosa e con tanto di dati censiti e raccolti, viene dal rapporto di Legambiente Ecomafia 2019 dedicato alle illegalità ambientali. Nel 2018 si sono registrati 28.137 illeciti contro l’ambiente (più di 3,2 ogni ora). L’aggressione alle risorse ambientali del Paese si traduce in un giro d’affari che nel 2018 ha fruttato all’ecomafia ben 16,6 miliardi di euro, 2,5 in più rispetto all’anno precedente e che vede tra i protagonisti ben 368 clan, censiti da Legambiente e attivi in tutta Italia. Sul fronte dei singoli illeciti ambientali, nel 2018 aumentano sia quelli legati al ciclo illegale dei rifiuti che si avvicinano alla soglia degli 8mila (quasi 22 al giorno) sia quelli del cemento selvaggio che nel 2018 registrano un’impennata toccando quota 6.578, con una crescita del +68% (contro i 3.908 reati del 2017). Un incremento che si spiega con una novità importante di questa edizione del rapporto Ecomafia: per la prima volta rientrano nel conteggio anche le infrazioni verbalizzate dal Comando carabinieri per la tutela del lavoro, in materia di sicurezza, abusivismo, caporalato nei cantieri e indebita percezione di erogazioni ai danni dello stato, guadagni ottenuti grazie a false attestazioni o missione di informazioni alla Pubblica amministrazione. Nel 2018 lievitano anche le illegalità nel settore agroalimentare, sono ben 44.795, quasi 123 al giorno, le infrazioni ai danni del Made in Italy (contro le 37mila del 2017) e il fatturato illegale – solo considerando il valore dei prodotti sequestrati – tocca i 1,4 miliardi (con un aumento del 35,6% rispetto all’anno). In leggera crescita anche i delitti contro gli animali e la fauna selvatica con 7291 reati – circa 20 al giorno – contro i 7mila del 2017. Come già detto, calano invece, grazie a condizioni meteoclimatiche sfavorevoli agli ecocriminali, gli incendi boschivi: un crollo da 6.550 del 2017 ai 2.034 del 2018. Da sottolineare che anche nel 2018 si conferma l’ottima performance della legge 68/2015 sugli ecoreati, che sin dall’inizio della sua entrata in vigore (giugno 2015) sta stando un contributo fondamentale nella lotta agli ecocriminali, con più di mille contestazioni solo nello scorso anno (come si dirà dopo) e un trend in costante crescita (+ 129%).

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Nelle quattro regioni a tradizionale insediamento mafioso (Campania, Calabria, Puglia e Sicilia), lo scorso anno si è concentrato quasi il 45% delle infrazioni, pari a 12.597. La Campania domina la classifica regionale delle illegalità ambientali con 3.862 illeciti (14,4% sul totale nazionale), seguita dalla Calabria (3.240) – che registra comunque il numero più alto di arresti, 35 –, la Puglia (2.854) e la Sicilia (2.641). La Toscana è, dopo il Lazio che ha registrato poco più di 2.000 reati, la seconda regione del Centro Italia per numero di reati (1.836), seguita dalla Lombardia, al settimo posto nazionale. La provincia con il numero più alto di illeciti si conferma Napoli (1.360), poi Roma (1.037), Bari (711), Palermo (671) e Avellino (667).

La Campania domina anche la classifica regionale delle illegalità nel ciclo del cemento con 1.169 infrazioni, davanti alla Calabria (789), Puglia (730), Lazio (514) e Sicilia (480). A livello provinciale, guidano la classifica Avellino e Napoli con rispettivamente 408 e 317 infrazioni accertate. Il fenomeno dell’abusivismo edilizio, soprattutto al Sud, rimane una piaga per il Paese che nel 2018 è stato anche segnato dal vergognoso condono edilizio per Ischia. Emerge che in Italia si continua a costruire abusivamente: secondo il Cresme, nel 2018 il tasso di abusivismo si aggira intorno al 16%, considerando sia le nuove costruzioni sia gli ampliamenti del patrimonio immobiliare esistente. Inoltre secondo i dati del report Abbatti l’abusi, dal 2004, anno successivo all’ultimo condono edilizio nazionale, al 2018, nel nostro paese è stato abbattuto solo il 19,6% degli immobili colpiti da un ordine di demolizione. Legambiente ricorda che il migliore deterrente contro i nuovi abusi sono le demolizioni. Sul fronte del traffico illecito dei rifiuti, sono 459 le inchieste condotte e chiuse dalle forze dell’ordine dal febbraio 2002 al 31 maggio 2019 utilizzando il delitto di organizzazione di traffico illecito di rifiuti. Complessivamente sono state 90 le procure che si sono messe sulle tracce dei trafficanti, portando alla denuncia di 9.027 persone e all’arresto di 2.023, coinvolgendo 1.195 aziende e ben 46 stati esteri. Le tonnellate di rifiuti sequestrate sono state quasi 54 milioni. Tra le tipologie di rifiuti predilette dai trafficanti ci sono i fanghi industriali e i rifiuti speciali contenenti materiali metallici. La corruzione resta lo strumento principe, il più efficace, per aggirare le regole concepite per tutelare l’ambiente e maturare profitti illeciti. Dal 1° giugno 2018 al 31 maggio 2019 sono ben 100 le inchieste censite da Legambiente e che hanno visto impegnate 36 procure, capaci di denunciare 597 persone e arrestarne 395, eseguendo 143 sequestri. Se nelle quattro regioni a tradizionale insediamento mafioso se ne sono contate 43, che fanno il 43% sul totale, è il Lazio la regione con il numero più alto di inchieste, 23, seguita da Sicilia (21), Lombardia (12), Campania (9) e Calabria (8). Sempre nel 2018 sono inoltre 23 le Amministrazioni comunali sciolte per mafia, mentre nei primi cinque mesi del 2019 sono state ben 8: Careri (Reggio Calabria; sciolto una prima volta nel 2012), Pachino (Siracusa), San Cataldo (Caltanissetta), Mistretta (Messina), Palizzi (Reggio Calabria), Stilo (Reggio Calabria), Arzano (Napoli; al terzo scioglimento, dopo quelli del 2008 e del 2015) e dell’Azienda sanitaria provinciale di Reggio Calabria. Per quanto riguarda il settore delle archeomafie, lo scorso anno il racket legato alle opere d’arte e ai reperti archeologici ha avuto un andamento altalenante: cala per quanto riguarda i furti (-6,3%) rispetto all’anno precedente, ma il dato più importante è la contrazione dei sequestri effettuati (-77,8%) e quella degli oggetti recuperati (-41%). Considerevole il numero dei controlli, che sono stati 33.028, una media di oltre novanta al giorno. La regione più esposta all’aggressione dell’archeomafia è la Campania, con il 16,6% di opere d’arte rubate, mentre a svettare nel bilancio 2018 del “tesoro recuperato” ci sono i 43.021 reperti archeologici. Altro fronte, è quello degli shopper illegali. Nell’ultimo anno e mezzo (2018 e primi cinque mesi del 2019), l’Agenzia delle dogane dei monopoli, in collaborazione con Guardia di finanza e Carabinieri, ha lavorato con campagne mirate per fermare i flussi illegali. Il risultato complessivo è stato: 6,4 milioni di borse di plastica illegali sequestrate al porto di La Spezia; 15 tonnellate di borse di plastica illegali sequestrate al porto di Palermo; 18 tonnellate di borse di plastica illegali sequestrate al porto di Trieste, solo per citare qualche numero. Novità di questa edizione è, infine, uno specifico capitolo dedicato al mercato nero dei gas refrigeranti HFC, gas introdotti dal protocollo di Montreal in sostituzione di quelli messi al bando perché lesivi dello strato di ozono (ODS). Come emerge dall’analisi dell’EIA (Environmental Investigation Agency) e dal lavoro degli inquirenti dei paesi membri, una bella fetta di questo mercato internazionale (regolato da un complesso sistema di quote assegnate alle aziende produttrici) è completamente in nero, dove figura anche l’Italia.

fonte: ilcambiamento.it

Piemonte, al via il bando regionale da 40 milioni di euro per la Bioeconomia

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la Regione vara questa nuova piattaforma su uno dei temi più strategici per l’attuale programmazione dei fondi europei. L’ente sostiene progetti per chimica verde, cleantech e agroalimentare, stanziando contributi per 40 milioni

Contributi a fondo perduto finalizzati alla realizzazione di  progetti di ricerca industriale in Piemonte nei settori dell’agroalimentare, della chimica verde/cleantech e dell’economia circolare, con l’impegno da parte delle aziende di assumere giovani qualificati in alto apprendistato, in rapporto alla fascia di investimento prevista. Sono queste, in sintesi, le caratteristiche più significative della nuova piattaforma tecnologica sulla Bioeconomia, di cui da oggi è disponibile il bando.

Dopo  “Fabbrica intelligente” (avviata nel 2015) e  “Salute e benessere” (lanciata lo scorso anno), la Regione vara questa nuova piattaforma su uno dei temi più strategici per l’attuale programmazione dei fondi europei, finanziando i relativi progetti con un contributo di 40 milioni di euro.

Nel territorio piemontese l’industria agrifood è costituita da circa 33 mila unità produttive e oltre 135 mila addetti, mentre sono quasi 3800 le imprese del settore chimica verde con circa 48 mila lavoratori. «Il Piemonte- sottolinea l’assessore Giuseppina De Santis – ha condiviso con le altre Regioni la strategia generale di posizionamento sul settore e questa piattaforma rappresenta la misura concreta per darne attuazione. Qui è inoltre presente un modello distintivo di collaborazione tra mondo agricolo e industriale, che rende auspicabile l’ulteriore incremento della cooperazione tra strutture di ricerca e imprese riferiti all’intera filiera agroalimentare. Contiamo infine che, come già accaduto con le altre misure avviate sulla ricerca, anche in questo caso si possano ottenere importanti risultati sul tema dell’occupazione qualificata di giovani ricercatori».

La piattaforma sulla Bioeconomia riunisce i settori della chimica verde/cleantech e dell’agroalimentare. In tali ambiti una delle sfide più attuali è costituita dal rafforzamento della ricerca e dell’innovazione volte allo sviluppo di tecnologie non solo nei rispettivi comparti, ma come risultato della loro simbiosi, che consenta la creazione di ecosistemi produttivi circolari. La bioeconomia si propone quindi di favorire la transizione verso un sistema economico più sostenibile e a minor impatto ambientale, che rigeneri gli ecosistemi naturali anziché impattarli e maggiormente efficiente dal punto di vista delle risorse nel più ampio contesto di sviluppo dell’economia circolare.  Lo strumento della piattaforma tecnologica è già collaudata da diverso tempo in Piemonte nell’ambito della politica di sviluppo regionale: si tratta di sostenere le iniziative di partenariati che si costituiscono ad hoc riunendo grandi e piccole imprese insieme ai centri di ricerca pubblici e privati. La piattaforma rappresenta quindi l’ideale forma di coordinamento e di raccordo tra i diversi attori – imprese, istituzioni, Università – che operano su scala regionale in uno specifico settore di innovazione attorno ad una visione strategica comune, con il fine di garantire un trasferimento tecnologico più immediato.  Il contributo è a fondo perduto, con il limite massimo di 10 milioni di euro per progetto e 5 milioni di euro per singolo soggetto. Gli interventi finanziabili, presentati dal raggruppamenti che abbiano come minimo  il 30 per cento di “presenza” di piccole e medie imprese, dovranno riguardare la ricerca industriale o lo sviluppo sperimentale. Per ogni singola proposta progettuale le imprese del partenariato, assumono l’impegno ad attivare un numero minimo di assunzioni in alto apprendistato che varia tra 10 e 20, in rapporto alla fascia di investimento prevista.

La piattaforma sulla bioeconomia è destinata alle imprese industriali e di trasformazione agroalimentare, ma auspica la partecipazione di imprese del settore agricolo e primario, che potranno avvalersi delle opportunità offerte dal Programma di Sviluppo Rurale 2014-2020, attraverso una misura di prossima emanazione che ha in programma una esplicita premialità per i soggetti che cooperano nell’ambito dei progetti finanziati dalla piattaforma bioeconomia del Fesr.

Le candidature dovranno essere presentate entro e il 17 settembre 2018.

Pagina dedicata all’agevolazione: https://www.finpiemonte.it/bandi/dettaglio-bando/piattaforma-tecnologica-bioeconomia

 

Fonte: ecodallecitta.it

L’agroalimentare italiano salvato dall’export: +36% negli Usa

Le tensioni fra Ue e Russia hanno fatto crollare del 45% gli ordini della Russia. Le esportazioni del settore agroalimentare italiano negli Stati Uniti hanno registrato un aumento del +36% rispetto all’anno precedente, secondo i dati raccolti ad aprile 2015. Il forte impulso all’export è stato favorito dal tasso euro/dollaro estremamente favorevole, ma risultati oltre le aspettative sono stati anche quelli riguardanti l’India (con un +25%) e Cina (con un +18%). La Coldiretti, in riferimento ai dati Istat sul commercio estero nei paesi extra Ue ad aprile 2015, ha registrato un aumento record del 12,2% delle esportazioni italiane rispetto allo stesso mese dell’anno precedente. Il cambio favorevole ha reso maggiormente competitive le aziende di casa nostra e l’export diventa, ancora una volta, un’ancora di salvezza per i molti piccoli, medi e grandi imprenditori capaci di guardare oltre i confini nazionali. L’export è il fattore in grado di sostenere l’economia in una fase nella quel permane la stagnazione dei consumi interni.
Anche nei dati relativi all’export di alimenti e bevande verso Stati Uniti e Cina del primo trimestre permane il segno positivo: + 20% per l’export verso gli Usa e + 23% verso l’Estremo Oriente. Pesante è, invece, il segno negativo delle esportazioni verso la Russia: le tensioni nei rapporti fra l’Ue e Mosca conseguenti al conflitto ucraino, il crollo del rublo e l’embargo hanno portato a un calo del 45% rispetto ai primi tre mesi del 2014. Ora bisogna capire se l’Expo 2015 farà da ulteriore volano a un export che resta il fiore all’occhiello della nostra economia. Intanto, proprio quest’oggi, il ministro Martina ha lanciato The Extraordinary Italian Taste, un marchio di qualità destinato a proteggere il cibo italiano dai numerosi “falsi cibi” che si trovano in commercio in giro per il mondo e che sottraggono alla nostra filiera agroalimentare all’incirca 60 miliardi di euro l’anno di potenziali esportazioni. Questa, infatti, è la cifra del business che ruota intorno ai cibi contraffatti e al cosiddetto Italian Sounding di cui Ecoblog si è occupato più volte.made-in-italy

Fonte:  Coldiretti

Big Sugar e i mercanti del dubbio

C’è l’industria dei farmaci, dell’agroalimentare, del tabacco, del petrolio e c’è anche… Big Sugar. Secondo il documentario “Merchants of doubt” è da lì, da loro che tutti hanno imparato a manipolare opinione pubblica e decisori piegandoli agli scopi del mercato.zucchero_carie

I ricercatori dell’Università della California, sede di San Francisco, hanno analizzato (leggi qui lo studio integrale) 319 documenti interni di industrie dolciarie, fatti girare dal 1950 al 1971, momento chiave per le regole di salute pubblica che riguardavano proprio il problema dello zucchero e della carie dentaria. La loro conclusione è stata pubblicata su PLoS Medicine e ha rivelato ciò che loro stessi dicono essere stato l’esempio di come agiscono i “mercati del dubbio” (definizione che ha dato il titolo al documentario appena uscito). A farlo notare è Lindsay Abrams, autrice per Salon. I soggetti coinvolti nel commercio dello zucchero sapevano fin dagli anni ’50 i danni che esso comportava per i denti – sostengono gli autori dello studio – e si erano anche accorti che il metodo migliore consigliato dai dentisti per evitare le carie era quello di ridurre il consumo di zucchero. Le prove erano troppo evidenti per essere ignorate, così l’industria architettò un piano per distogliere l’attenzione dalle politiche di riduzione del consumo di zucchero. Vennero finanziato costosi e complicati esperimenti (falliti) sostenendo che sarebbero stati ridotti gli effetti dannosi e l’industria ha fatto in modo che i programmi di ricerca statali seguissero quella strada. La natura di quegli esperimenti ha dimostrato che l’industria stava cercando di fare tutto il possibile pur di non accettare l’ovvio, cioè la necessità di raccomandare alla gente di ridurre il consumo di zucchero. L’industria ha portato avanti ricerche per un improbabile vaccino contro le carie e per sviluppare un enzima che si sarebbe potuto aggiungere ai cibi per ridurre l’impatto dello zucchero sui denti. “Perché la gente dovrebbe rinunciare al piacere?” si chiedeva in un articolo il professor Bertram Cohen, che guidava i progetti di ricerca. “E’ ovviamente meglio eliminare gli effetti dannosi”. Quell’articolo, fa notare lo studio pubblicato su PLoS, non faceva menzione del fatto che il lavoro di Cohen era finanziato dall’industria del cioccolato e dei dolci. “Si potrebbe dire, sulla base della logica e delle evidenze, che eliminando il consumo di zucchero si eliminerebbe il problema perché si eliminerebbe ciò di cui i batteri delle carie si nutrono” aveva detto a suo tempo il direttore scientifico del NIDR, il National Institute of Dental Research (oggi National Institute of Dental and Craniofacial Research). “Ma bisogna essere realisti” aveva aggiunto. “Benchè ciò sia stato dimostrato su modelli animali, non è praticabile come misura di salute pubblica”. Il National Caries Program (NCP), lanciato nel 1971 con l’obiettivo di eradicare la carie nel giro di un decennio, si è poi chiuso ignorando tutte le strategie per limitare il consumo di zuccheri e non aveva nemmeno individuato i test che avrebbero potuto stabilire quali cibi erano più dannosi per i denti. Il programma si rivelò un fallimento e non fu una sorpresa; gli autori dissero che la carie dentaria, benchè largamente prevenibile, restava un problema cronico per i bambini americani. E lo è tuttora. E gli autori dello studio dichiarano anche che l’industria continua a sostenere come, al massimo, le politiche di salute pubblica debbano concentrarsi sulla riduzione degli effetti deleteri dello zucchero anziché sulla riduzione del consumo di zucchero stesso. “Queste tattiche sono molto simili a quelle già messe in atto dall’industria del tabacco” spiega Stanton Glantz, co-firmatario dell’articolo. E quelle multinazionali non sono più ammesse a partecipare alle discussioni dell’Oms. “Le nostre conclusioni vogliono essere una sveglia per i governi e i decisori”. Si auspica che lo siano. Anche perché, oltre alle carie, occorrerebbe considerare gli effetti deleteri che il consumo di zucchero ha sull’organismo umano in generale.

Fonte: ilcambiamento.it

 

Deforestazione: persi 200 kmq all’anno

Una superficie grande come la provincia di Trieste viene sacrificata ogni anno nel nome dell’industria del legno, cartaria, estrattiva e agroalimentare.

Una superficie di foreste grande quasi come l’intera provincia di Trieste è il territorio di foresta che viene consumato ogni anno per alimentare l’industria mineraria e cartaria, la produzione di legna e di olio di palma. Si tratta di una sconfitta per il mondo intero, di una perdita che coinvolge le popolazioni indigene ma che ha ripercussioni globali condizionando (e ostacolando) i processi di contrasto al riscaldamento globale. Il report Securing Forests, Securing Rights presentato a Lima in concomitanza con la COP20 sui cambiamenti climatici ha confermato come la deforestazione continui a essere strettamente legata all’attività delle industrie estrattiva e agroalimentare. Il Brasile ha già lanciato ben cinque satelliti che hanno il compito di “vegliare” sulle foreste, ma proprio nell’ultimo anno c’è stata una pericolosa recrudescenza della deforestazione in ampie zone della “locomotiva” dell’economia sudamericana. La deforestazione non è che uno dei tanti lati oscuri delle politiche di sviluppo economico prive di contromisure politiche. Il Brasile è il paradigma di questa logica: a pagare il prezzo della crescita è l’ambiente e la presa di coscienza di ciò che si perde è ancora minoritaria rispetto all’ambizione dei governanti di guadagnare punti di Pil. E occorre mettere nel conto anche tutti gli effetti collaterali della deforestazione poiché, come sottolineato dal rapporto, “le operazioni commerciali sui terreni boschivi comportano sgomberi, lavoro forzato, arresti arbitrari, stupri, torture e omicidi dei membri della comunità locali”. A proporre le soluzioni è Climate Disclosure Project con Deforestation-free supply chains: From commitments to action che propone di utilizzare materie prime certificate e metodi di tracciabilità dei prodotti e, congiuntamente, di colmare il gap che separa la valutazione dei rischi dalle azioni concrete per contrastarli.

 

Fonte:  Forest Peoples Programme

© Foto Getty Images

Rural Hub: aree rurali e innovazione sociale per valorizzare il Made in Italy agroalimentare

Rural Hub  è una rete di ricercatori, attivisti, studiosi e manager che favorisce lo scambio e la condivisione di idee e progetti di innovazione sociale applicata alla ruralità, cioè alla terra e all’agricoltura. È un luogo fisico e, al tempo stesso, virtuale che intende mappare e sostenere un movimento sempre più vasto di persone che hanno acquisito importanti competenze tecnologiche e che hanno scelto di ritornare alla terra.Calvanico, Societing Summer School 2013 a cura di Alex Giordano

Rural Hub – che ha sede a Napoli e nasce nel 2013 come un “collettivo di ricerca” per connettere tra loro startuppers, investitori e associazioni di categoria del settore agroalimentare – è tante cose insieme: luogo condiviso di vita (co-living) e lavoro (co-working); centro di studi e di ricerca permanente sull’innovazione sociale applicata alla ruralità; incubatore e project financing per “rural start-ups”.  Questa realtà si differenzia dalle tante reti presenti in Italia perché vuole essere un invito ad un’innovazione rurale autentica, che viene definita “rural social innovation”. La rural social innovation è il luogo del recupero dei saperi e della tradizione contadina italiana (ad es. il recupero dei grani autoctoni) accompagnato dall’utilizzo delle nuove tecnologie – come la partnership con Arduino per ideare dispositivi per le macchine agricole.

L’obiettivo principale della social rural innovation non è lavorare sulla necessità finanziaria di un solo soggetto (azienda o multinazionale), ma sulla creazione e redistribuzione di valore nel territorio, sull’autenticità dei singoli progetti, sul senso di comunità, sull’etica del lavoro e dell’abnegazione sul campo. L’etica della start up spesso viene traslata “nell’etica del colpo gobbo: ovvero, un ragazzo inventa un’app, ha successo, la rivende. E chi se ne frega degli altri”, spiega Alex Giordano – direttore scientifico e presidente del progetto di ricerca. In Rural Hub, al contrario, le idee di business vengono definite innovative se sono sostenibili non solo dal punto di vista sociale e ambientale, ma anche economico perché ideate per esistere a lungo termine nello stesso luogo che le ha generate. Le startup rurali realmente innovative devono innescare meccanismi di redistribuzione economica sulle comunità locali, perché fare innovazione oggi significa essere consapevoli di far parte di un territorio, di un sistema plurale.

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“Ho deciso di fare il grano? Ho messo in piedi tutto, dai mulini al sito web che poi lo venderà, in connessione con più soggetti? Allora se non lavoro e se non faccio il mio dovere, tutto il sistema ne risente. È questo il sistema di valori che ci tiene insieme”, continua Alex. “La tecnologia dev’essere usata a scopi sociali. Siamo per un’agricoltura moderna che usa la tecnologia per essere sostenibile e di qualità, un’agricoltura legata alle comunità locali, ma capace di essere in connessione con il mondo”.

“La cosa interessante è riuscire a guardare indietro, con l’ausilio dei vecchi contadini, per capire come si fa il lavoro. E dall’altro lato c’è una nuova generazione che conosce le dinamiche della connessione e i processi di sharing, che può lavorare in rete e fare sistema”. In un mondo interconnesso come il nostro le barriere spazio-temporali si annullano e, di conseguenza, non esiste più una “modernità metropolitana” contrapposta ad “aree rurali arretrate ed ancorate al passato”.

Il passato, al contrario, fornisce i saperi e le conoscenze per valorizzare il prezioso patrimonio agroalimentare italiano e dare nuovo slancio ad un’economia in stagnazione. Non è un caso che tra i partner del progetto ci sia anche Libera Terra, che ha come obiettivo il recupero sociale e produttivo dei beni confiscati alla criminalità organizzata, attraverso la produzione di prodotti di qualità e la creazione di cooperative autonome, autosufficienti, durature, in grado di dare lavoro e creare un indotto economico positivo. Le idee ed i progetti di Rural Hub possono riguardare innovazioni nei modelli di business e di distribuzione oppure soluzioni informatiche, etiche ed ecologiche per il settore agroalimentare, ma sempre con un occhio alla loro natura condivisibile e al recupero dei valori e delle identità socio-culturali di uno specifico territorio. Perché l’innovazione o è davvero sociale o non serve. Parola di Rural Hub.

 

Il sito di Rural Hub 

Fonte: italiachecambia.org/

Per il vino italiano un’altra stagione da record: l’export 2013 segna un + 7%

La produzione vinicola italiana ha fatturato 5 miliardi di euro trainando l’export dell’agroalimentare verso livelli record

Il vino italiano trionfa in giro per il mondo. Il 2013 ha fatto registrare nuovi record di vendita con un + 7% di export e un giro d’affari complessivo di 5 miliardi di euro. Il vino rappresenta attualmente un vero e proprio traino per le esportazioni agroalimentari che, secondo quanto emerso da un’indagine Coldiretti su dati Istat del 2013, hanno raggiunto la cifra record di 33,4 miliardi di euro con una crescita del 5% rispetto al 2012. Il positivo andamento dell’export compensa soltanto parzialmente il forte calo dei consumi che si è verificato fra le famiglie italiane: pesce fresco (-20%), pasta (-9% ) e latte (-8%) sono i tre settori che hanno risentito maggiormente della contrazione dei consumi mentre la riduzione di carne (-2%) e ortofrutta (-3%) è stata decisamente più contenuta. All’estero il vino è il prodotto più ambito, ma anche l’ortofrutta, la pasta e l’olio di oliva restano apprezzatissimi, specialmente negli altri Paesi dell’Unione Europea nei quali l’export italiano realizza i 2/3 del suo fatturato. Il rialzo dell’euro potrebbe frenare le esportazioni di vino negli Stati Uniti, dove nel 2013 è stato superato il miliardo di euro di fatturato. Oltreoceano resta aperta un’altra questione: quella della battaglia che divide gli Stati Uniti dall’Unione Europea sui domini web .vin e .wine che i produttori europei vorrebbero regolamentare per tutelare la propria produzione doc e docg dalle imitazioni e dalle contraffazioni. Da un parte gli Stati Uniti rivendicano l’assoluta libertà nel difendere il proprio vino, dall’altra l’Europa chiede rispetto delle denominazioni d’origine controllata. A fine marzo, a Singapore, se ne parlerà in campo “neutro”. Per i vini europei la possibilità di un suffisso web .vin e .wine potrebbe valere milioni.141914114-586x354

Fonte:  Coldiretti

Spreco alimentare, al via i lavori per la costituzione del PINPAS

Mercoledì 5 febbraio a Roma la prima assemblea degli Stati Generali della prevenzione dello spreco alimentare in Italia, in vista dell’elaborazione del Pinpas, il Piano nazionale di prevenzione dello spreco alimentare di cui si doterà l’Italia nella prossima primavera378035

Per la prima volta l’Italia affronta in modo organico il problema degli sprechi alimentari. Fao, Confagricoltura, Confcommercio, Last minute market, Banco Alimentare, Slow Food, Acli, Caritas, Federcomsumatori, Coldiretti, Expo e poi le aziende italiane coinvolte nel tema, da Alcenero a Barilla, da Granarolo a Whirlpool, da Coop a Conad, sono solo alcuni degli oltre cento soggetti che aderiscono agliStati Generali di prevenzione dello spreco alimentare in Italia, convocati su iniziativa del Ministero dell’Ambiente mercoledì 5 febbraio a Roma al Tempio di Adriano.
Enti, associazioni, organizzazioni e imprese: sono pressoché al completo gli attori della filiera agroalimentare italiana e le organizzazioni attive nella lotta agli sprechi che interverranno per esprimere proposte, indicazioni e buone pratiche propedeutiche all’elaborazione del Pinpas, il Piano nazionale di prevenzione dello spreco alimentare di cui si doterà l’Italia nella prossima primavera, in sintonia con quanto indicato dalla Commissione Europea nella tabella di marcia verso un’Europa efficiente nell’impiego delle risorse.  I lavori, alla presenza del Ministro dell’Ambiente Andrea Orlando e del Sottosegretario alle Politiche Agricole e delegato all’Expo Maurizio Martina, saranno introdotti e coordinati dal presidente di Last Minute Market Andrea Segrè. Interverranno alcuni componenti del Gruppo di lavoro del Pinpas: la scrittrice Susanna Tamaro, lo scienziato Vincenzo Balzani, lo scrittore e attore Giobbe Covatta. Il Pinpas, Piano nazionale di prevenzione dello spreco alimentare, è stato inserito nell’ambito del Piano Nazionale di Prevenzione dei Rifiuti. Il Pinpas ambisce a produrre soluzioni concrete ed efficaci in termini di riduzione alla fonte della quantità di cibo che finisce tra i “rifiuti” sul breve, medio e lungo periodo. Alla vigilia dell’incontro, Massimiliano Dona, Segretario generale dell’Unione Nazionale Consumatori ha sottolineato come la crisi abbia rimpicciolito i carrelli della spesa degli italiani, ma i bidoni della spazzatura non accennino a svuotarsi. «Ci troviamo davanti ad un corto circuito culturale -afferma Dona- per cui le famiglie sono costrette a consumare di meno per far quadrare i bilanci, eppure ogni anno circa 6 milioni di tonnellate di cibo finiscono nella spazzatura; d’altra parte, quello che mangiamo è sempre più spesso, concedetemi il gioco di parole, cibo spazzatura». Secondo il Segretario dell’Unione Consumatori, però non sono i consumatori gli unici responsabili degli sprechi, anche se una loro maggiore consapevolezza non guasterebbe. «Nelle inefficienze dell’intera filiera si perdono risorse economiche ed ecologiche – conclude Dona – Per questo, confidiamo nella riuscita di questa task force contro lo spreco che coinvolge tutti i soggetti del mercato, affinché sia possibile  predisporre degli interventi mirati per razionalizzare le produzioni ed educare i cittadini al consumo sostenibile».

 

Fonte: ecodallecittà

Google Made in Italy: il nuovo portale delle eccellenze italiane

Per la prima volta, il principale motore di ricerca al mondo, inaugura un portale dedicato alle eccellenze agroalimentari e artigianali di un Paese. Una grande occasione per una visibilità globaleImmagine8-620x332

Il cibo e i marchi italiani continuano a essere il plusvalore del nostro Paese, nonostante la crisi che strozza le imprese. Visto che sull’argomento Governo e ministeri (quelli del Turismo e dell’Economia) sono fermi al palo, l’iniziativa la prende Google che ha in mano i flussi delle ricerche sul web e, quindi, le chiavi d’interpretazione del mondo.
E i dati dicono che nel 2013 le ricerche legate al made in Italysono aumentate del 12% rispetto al 2012. Per giapponesi, russi, americani e indiani il nostro paese continua a essere un Eldorado di qualità, soprattutto nel settore agroalimentare.

È sempre più evidente che new-technology e agroalimentare sono i settori che daranno più occupazione nel futuro. Perché non metterli insieme? Perché non fare un link tra la Silicon Valley e la nostra Food Valley?

ha dichiarato il Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali, Nunzia De Girolamo, al convegno “Made in Italy: eccellenze in digitale”, nel corso del quale è stato lanciato il progetto del nuovo sito www.google.it/madeinitaly. Realizzato dal Google Cultural Institute, il portale ha ottenuto il sostegno del Ministero dell’Agricoltura, di UnioncamereSymbola e Università Ca’ Foscari. Si tratta del primo esperimento del più importante motore di ricerca al mondo nella promozione delle eccellenze di un Paese. Un progetto che, come ha ricordato la stessa De Girolamo, al Ministero non è costato un euro, ma potrebbe dare una visibilità globale ai 261 prodotti a denominazione (Dop, Igp e Stg) che rappresentano il fiore all’occhiello dell’export, l’unica voce che in questi anni di crisi ha fatto registrare risultati confortanti. Grande soddisfazione è stata manifestata anche da Roberto Moncalvo, presidente della Coldiretti, che ha tenuto a ricordare come l’italian sounding, ovverosia il falso made in Italy, fatturi ogni anno 60 miliardi di euro, una cifra doppia rispetto al valore delle esportazioni agroalimentari. Pur lodando i potenziali benefici dell’iniziativa, la Cia, Conferenza Italiana Agricoltori, ha sottolineato il digital divide fra centri urbani (dove la connessione a Internet di qualità è ormai all’89%) e le aree rurali dove solo il 17% degli abitanti può contare su una connessione degna di questo nome. Ora tocca alla politica far fruttare il prezioso assist di Google e consentire ai produttori di entrare veramente nella Rete che conta.

Fonte: Help Consumatori

L’agricoltura piace agli italiani e per il 40% è il lavoro per i propri figli

Al 40% degli italiani l’agricoltura piace, tanto che la consiglierebbe come lavoro ai propri figli116257579-594x350

Il 40% degli italiani, oggi, consiglierebbe ai propri figli un lavoro in agricoltura. Il dato è particolarmente rilevante se si pensa che lo scorso anno era il 27% degli italiani a avere questa opinione. La mentalità contadina torna in auge e la conferma arriva da un sondaggio effettuato da IPR marketing per UniVerde presentato ieri a Roma al convegno con Coldiretti Agricoltura e occupazione: antichi e nuovi mestieri. Durante il convegno è stato anche presentato il terzo Rapporto “Gli italiani e l’agricoltura” con il focus su “Agricoltura multifunzionale e Green Economy” a cui hanno preso parte Alfonso Pecoraro Scanio Presidente Fondazione UniVerde, Sergio Marini Presidente Nazionale Coldiretti, Antonio Noto Direttore IPR Marketing, Domenico De Masi Sociologo e Patrizia Marini Presidente Rete Nazionale degli Istituti Agrari. A presentarlo Corrado Abbate Dirigente Ricerca dell’ISTAT che ha piegato come mai oltre il 70% degli intervistati per la scarsa attenzione rivolta proprio al settore primario confermando però di credere nella genuinità (61%) e nel sapore (64%) dei prodotti italiani.

Spiega Alfonso Pecoraro Scanio:

Si rafforza la già stragrande maggioranza di chi ritiene positivo per l’ambiente il ruolo degli agricoltori (dal 79% del 2012 all’85% degli intervistati nel 2013) soprattutto per il grande lavoro, da essi svolto, per la tutela della tradizione (per il 32% degli intervistati), nel contrastare la mal manutenzione e promuovere il recupero dei territori (28%), per il contrasto alla cementificazione (11%) e per la capacità di creare nuova occupazione (10%).

D’altronde Sergio Marini, Presidente di Coldiretti ha sottolineato quanto il settore agricolo sia l’unico in tempo di crisi a assorbire la maggior parte dei disoccupati e fa segnare un +9% nelle assunzioni di giovani under 35 già nel primo trimestre 2013:

Nonostante gli effetti negativi sulle coltivazioni provocati dal maltempo e i segnali depressivi sui consumi che hanno interessato anche l’agroalimentare. La crescita di opportunità nel settore agricolo è resa evidente dal boom del 29% delle iscrizioni negli istituti professionali agricoli e del 13 % negli istituti tecnici di agraria, agroalimentare ed agroindustria.

Dunque il consenso per l’agricoltura è unanime nonostante sia il settore meno esaltato nel panorama politico italiano: crescono gli acquisti nei Farmers’market (dal 34% al 49%); vi è consenso plebiscitario per le fattorie didattiche (94% degli
intervistati) e rifiuto all’utilizzo di Ogm in agricoltura (dal 62 % del 2012 al 76 % del 2013). Altri dati particolarmente succosi sono emersi da Agricoltura multifunzionale e Green Economy che ha analizzato i settori agricoltura e turismo:il 36% degli intervistati non andrà in vacanza mentre il 64% ci andrà solo per qualche giorno, il 32 % sceglierà località più vicine mentre il 25% accorcerà la durata dei soggiorni vacanza. Vincono nella scelta del soggiorno: agriturismi e i bed&breakfas 14% e 17% mentre l’albergo sarà scelto dal 27 % degli intervistati. Infatti in vacanza agli italiani come souvenir piace acquistare prodotti tipici (26% contro il 7% di cartoline e magliette mentre proprio gli agriturismo sono la struttura preferita per le vacanze(46%) preferendo passeggiate e trekking con la ricerca dei prodotti tipici (69%).

Fonte: Comunicato stampa