“Adotta” un agricoltore per sostenere gli antichi borghi e i territori italiani

I Borghi più belli d’Italia e Coltivatori di Emozioni lanciano una campagna per sostenere i piccoli agricoltori che valorizzano i territori italiani. Uno degli obiettivi, grazie anche alla collaborazione con lo chef Simone Rugiati, è anche quello di proporre uno stile alimentare sano, locale e biologico. Valorizzare i borghi della nostra Penisola sostenendo i piccoli produttori e le loro tradizioni agroalimentari: è questo l’obiettivo della partnership siglata dall’associazione I Borghi più belli d’Italia e Coltivatori di Emozioni, la piattaforma di Social Farming creata per sostenere e supportare fattivamente i piccoli produttori dell’agro-alimentare. Grazie a questa collaborazione nasce una nuova iniziativa che punta a valorizzare ulteriormente I Borghi più belli d’Italia attraverso uno degli elementi comuni alle due realtà: l’agricoltura. L’Italia custodisce un patrimonio prezioso, fatto di tradizioni ed eccellenze enogastronomiche senza eguali. Ogni territorio che circonda i piccoli borghi conserva una porzione di questo tesoro inestimabile, il più delle volte tramandato di padre in figlio. Da oggi sarà possibile “sostenere” una di queste piccole realtà produttive, contribuendo così a preservare il territorio, il paesaggio culturale e dare un sostegno all’economia dei Comuni aderenti alla rete dei Borghi più belli d’Italia.

L’iniziativa è stata lanciata nel periodo natalizio – segnato dalla preoccupazione e dall’incertezza – con l’intento di dare un segnale di speranza e tenere alta l’attenzione sulla bellezza e la ricchezza del nostro Paese. Per tutto il 2021 sarà, infatti, possibile sostenere “a distanza” uno dei piccoli agricoltori e produttori dei Borghi più belli d’Italia e diventare così un Azionista della Bellezza e del Gusto!

Inoltre, per raggiungere l’ambizioso obiettivo di dare voce ai piccoli produttori italiani e promuovere quei borghi, Coltivatori di Emozioni e i Borghi più belli d’Italia hanno deciso di affidarsi a un rappresentante eccezionale della cucina di qualità, lo chef Simone Rugiati. Un’iniziativa che lo chef ha sposato fin da subito, grazie alla condivisione di valori e intenti: portare in tavola prodotti naturali, provenienti da un’agricoltura sostenibile e/o biologica, che rispetti la biodiversità e il benessere del consumatore

Cliccando qui è possibile selezionare il produttore e il borgo che si vuole sostenere e ricevere in cambio prodotti tipici direttamente dal territorio. Dalla fagiolina del Trasimeno di Castiglione dal lago al farro di Abbateggio passando per il Giglietto Prenestino di Castel San Pietro ai vini di Sambuca di Sicilia. Ma non solo: ogni adozione genererà un buono lavoro da un’ora interamente destinato al produttore adottato, che potrà usarlo per le varie attività lavorative (semina, vendemmia, raccolta, lavorazione ecc.), dando un’occupazione ai giovani che risiedono nel borgo e inserendoli così nel tessuto produttivo del territorio, contribuendo a conservare la tradizione di quel luogo. Un Certificato di adozione suggellerà il legame fra il sostenitore e il territorio e/o produttore “adottato”.

Attraverso aggiornamenti stagionali i sostenitori avranno anche modo di conoscere “a distanza” borghi meravigliosi e tradizioni agroalimentari poco conosciute che meritano di essere riscoperte. Per viverle, poi, da vicino non appena si potrà tornare a viaggiare. Le tipologie di adesione all’iniziativa sono tre: più alta sarà la donazione e più saranno le ricompense in prodotto che si potranno ricevere e le ore-lavoro donate ai produttori. Inoltre uno dei pacchetti sarà impreziosito dalla nuovissima guida dei Borghi più belli d’Italia 2020/2021 composta da 792 pagine, circa 2.500 foto e la realtà aumentata con 100 filmati che accompagneranno il sostenitore alla scoperta dei gioielli dell’Italia nascosta. Per il Presidente dei Borghi più belli d’Italia, Fiorello Primi, «l’accordo fra I Borghi più belli d’Italia e Coltivatori di Emozioni permette alle persone di entrare a far parte di una rete di appassionati, agricoltori e aziende che vogliono dar vita a un nuovo ciclo di produzione responsabile, che recupera le buone tradizioni, sostiene le microeconomie locali e crea opportunità di lavoro nei piccoli borghi italiani, contribuendo a combattere il loro spopolamento».

«La protezione dei nostri patrimoni e la riscoperta delle coltivazioni tradizionali delle aree rurali italiane costituiscono l’energia che anima il nostro progetto. Tutti noi abbiamo il dovere di salvaguardare le tradizioni e le tipicità italiane», spiega Paolo Galloso, founder di Coltivatori di Emozioni. «Crediamo che attraverso la collaborazione con I Borghi più belli d’Italia possiamo coinvolgere tutti quei piccoli produttori italiani che con coraggio hanno deciso di portare avanti produzioni in territori unici ma difficili». Fonte: https://www.italiachecambia.org/2021/01/adotta-un-agricoltore-sostenere-antichi-borghi-territori/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

“Cerchiamo terreni incolti da assegnare in gestione”: l’appello dell’Associazione Fondiaria monregalese

Recuperare le superfici agricole e prendersi cura del territorio per garantire una produzione locale e sperimentare colture sostenibili: l’associazione Fondiaria monregalese è un esempio virtuoso della provincia di Cuneo e, attiva in più di una sessantina di comuni, aiuta a garantire la creazione di nuove attività di lavoro e lo sviluppo del territorio. Abbiamo intervistato il suo presidente Vittorio Camilla, che ci ha raccontato l’importante impegno delle associazioni fondiarie nella valorizzazione del territorio. Per mitigare i cambiamenti climatici viene spesso elogiato il ruolo degli alberi nel sequestrare anidride carbonica dall’atmosfera, e di conseguenza siamo portati a pensare che qualsiasi espansione del bosco sia da considerarsi positiva. Se così fosse, dovremmo celebrare il successo del nostro Paese nel ridurre le proprie emissioni climalteranti dato che la superficie boschiva italiana è aumentata addirittura del 75% negli ultimi 80 anni. Ma la realtà, in questo caso come in tutti quelli che riguardano gli ecosistemi in cui viviamo, è più complessa di quanto appare.

L’espansione del bosco evidenzia l’enorme perdita di superficie agricola utilizzata (SAU), ovvero la quantità di terra destinata alla produzione agricola in Italia. Solamente tra il 1990 e il 2016, ne è stata persa circa il 20%, corrispondente a circa 3 milioni di ettari di terreni coltivati. Non diversa è la situazione del Piemonte e della Provincia di Cuneo, dove l’agricoltura si è progressivamente concentrata in pianura, a discapito dei territori collinari (fatta eccezione per alcune colture specifiche come la vigna ed il nocciolo nelle Langhe e nel Roero) e di montagna. 

È quindi vero che ci sono più alberi a sequestrare anidride carbonica, ma se dobbiamo bruciare carburante per trasportare da lontano il cibo che non siamo più in grado di produrre localmente riduciamo davvero il nostro impatto ecologico? Evidentemente no. E la risposta è ulteriormente supportata dal fatto che l’abbandono del territorio causa un aumento del dissesto idrogeologico e del rischio di incendi, e il bosco d’invasione può diventare l’habitat naturale di alcuni parassiti. Recuperare almeno in parte la superficie agricola abbandonata risulta quindi fondamentale per ridurre i danni ambientali del nostro sistema economico. E risulta anche un’opportunità per sperimentare forme di agricoltura più giusta e sostenibile, un’agricoltura che si differenzi da quella industriale, causa principale dell’abbandono di terreni di collina e montagna difficili da lavorare con le grandi attrezzature moderne. Ritornare a coltivare in queste zone richiede però la possibilità di generare un ritorno economico per gli agricoltori, e la frammentazione fondiaria pone molto spesso un serio ostacolo su questo percorso.

Foto di Hans Braxmeier da Pixabay

Per ovviare a questo problema, a inizio 2019 la Regione Piemonte si è dotata di uno strumento innovativo nel panorama legislativo italiano: quello delle associazioni fondiarie. Queste sono libere unioni senza scopo di lucro fra proprietari di terreni pubblici o privati i quali, pur mantenendo la proprietà individuale del fondo decidono di affidarlo all’associazione affinché lo gestisca e lo valorizzi. Le associazioni permettono quindi di raggruppare aree agricole o boschi, abbandonati o incolti, che aumentano in valore economico e produttività nel momento in cui raggiungono una superficie sufficientemente ampia. Una delle ultime nate nel cuneese è l’Associazione Fondiaria Monregalese, che fin da subito si è distinta dalle altre per la notevole estensione territoriale sulla quale insiste. Sono infatti oggetto della sua attenzione tutti e 64 i comuni del monregalese, l’area prevalentemente collinare e montana circostante la città di Mondovì. L’Associazione Fondiaria monregalese è nata a fine 2019 e, come mi racconta il suo presidente Vittorio Camilla, «ambisce a contrastare la frammentazione di proprietà e lo scarso reddito agricolo che ha indotto ad un progressivo abbandono dei centri rurali e delle proprietà stesse, con effetto finora irreversibile».

L’aspirazione non è quindi limitata a recuperare terreni agricoli, ma ad influenzare tutti i comparti della zona. «A livello sociale, è infatti importantissimo l’aspetto di valorizzazione economica del territorio, l’avvio di pratiche virtuose che garantiscono la creazione di nuove attività di lavoro e da queste lo sviluppo di tutto l’indotto produttivo, sia commerciale che turistico», prosegue il presidente Camilla. 

Si tratta di un vero e proprio approccio di sistema grazie al quale l’associazione, essendo riuscita a coinvolgere un numero così alto di comuni, ha le potenzialità di ricevere in gestione un elevato numero di fondi da assegnare successivamente ad aziende agricole già presenti o di nuova costituzione. Di concerto con i comuni, l’associazione fondiaria ha inoltre il compito di mappare i terreni incolti e di redigere e attuare un piano di gestione del territorio che preveda un equilibrio tra le esigenze di produzione agricola e forestale e quelle di conservazione dell’ambiente e del paesaggio. Ma il percorso intrapreso non è stato finora semplice, come mi spiega ancora Vittorio Camilla. «Il progetto trova ostacolo nell’indifferenza, nella sfiducia, nei sospetti di coloro che dovrebbero impegnarsi in queste problematiche. Tra questi sospetti quello più ingiustificato riguarda la mancata restituzione del terreno se il proprietario lo desidera». La legge regionale infatti, prevede chiaramente il diritto di recesso del proprietario del terreno, nei limiti del rispetto del ritmo biologico delle annate agrarie e del capitale eventualmente investito sul fondo durante la gestione associata. In quest’ultimo caso, il proprietario che recede è tenuto a compensare la quota di capitale non ancora recuperata dall’associazione.

Foto di Daniel C da Piabay

Nonostante siano iniziate ad arrivare le prime disponibilità di terreni sia da parte di soggetti pubblici che di privati, sono necessari più conferimenti affinché l’associazione fondiaria monregalese possa esprimere al meglio le sua potenzialità di recupero di superficie agricola e di cura del territorio. Ed è proprio questo l’appello che il presidente Camilla fa a tutti i proprietari di terreni incolti nel monregalese, affermando che «occorre una mirata azione di accompagnamento e di informazione.  Anche per questi aspetti ci vuole impegno di quella minoranza attiva, consapevole che per progredire bisogna cambiare. L’Italia cambierà se noi riusciamo a cambiare».

E noi, che l’Italia che Cambia la vediamo e raccontiamo quotidianamente, non possiamo che rilanciare l’appello a tutti i proprietari di terreni incolti dell’area interessata: conferite i vostri terreni all’Associazione Fondiaria monregalese!

Per informazioni su come aderire, potete scrivere direttamente all’indirizzo mail: afmonregalese@gmail.com 

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2020/10/cerchiamo-terreni-incolti-assegnare-gestione-appello-associazione-fondiaria-monregalese/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Due giovani donne restano in Calabria e allevano animali felici

Vi proponiamo la storia di Francesca e Cristina Cofone, due giovani sorelle calabresi che, una volta laureate, hanno deciso di rimanere in montagna, nel cuore della Sila, per sviluppare l’azienda agricola di famiglia, allevando, mungendo, coltivando, facendo i formaggi e vivendo la gioia di una profonda comunione con gli animali e la terra che li ospita.

Dopo aver attraversato paesaggi mozzafiato di mezza Calabria, io e Paolo giungiamo insieme alla nostra guida d’eccezione – Cristiana Smurra – presso l’Azienda Agricola Cofone, nel cuore della Parco Nazionale della Sila. Tra una mucca e una balla di fieno, una dolce collina e qualche stalla, scorgiamo due giovani donne, tra i 25 e i 30 anni. Sono entrambe laureate, una al Dams e l’altra in Lingue e letteratura straniera, eppure hanno scelto di occuparsi di mucche allevate allo stato brado, latte, formaggi, mozzarelle, grano, ortaggi, frutta. Francesca Cofone, la sorella più “giovane” tra le due, ci racconta di come l’azienda fu fondata dal padre una volta tornato dalla Svizzera, dove era emigrato quando aveva 16 anni in cerca del denaro con cui avviare l’attività. «Io e mia sorella siamo nate e cresciute qua – ci confida Francesca – insieme ad un altro fratello che ora vive in Svizzera. Abbiamo studiato e poi abbiamo scelto di restare».
La parola “scelta” mi sembra da subito la parola chiave. In un’epoca in cui molti giovani sognano le città e vogliono fuggire dalle zone cosiddette marginali, incontrare due giovani donne laureate che scelgono con entusiasmo di rimanere in Calabria, in montagna, e dilavorare la terracolpisce, soprattutto per la naturalezza con la quale sembrano vivere la situazione.
«Fin da piccolissime abbiamo lavorato, ma con più spensieratezza. Lo abbiamo sempre fatto, anche  quando studiavamo all’università o lavoravamo fuori. Abbiamo sempre aiutato». Purtroppo tra il 2013 e il 2015 sono mancati entrambi i genitori delle ragazze e a quel punto è stato quasi inevitabile prendere in mano la situazione: «Abbiamo deciso di portare avanti quello che nostro padre ci aveva insegnato e ci siamo riuscite. Non è stato semplice ma abbiamo avuto piccole e grandi soddisfazioni».

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La titolare dell’azienda è la sorella Cristina. «Nel momento in cui è venuto a mancare nostro padre, – ci spiega Francesca – mia sorella ha preso in mano la situazione. Abbiamo rifatto i capannoni, cambiato i tetti, eliminato 2000mq di amianto. Abbiamo avuto la fortuna di incontrare realtà e persone che ci hanno dato tanta fiducia e hanno avuto la pazienza di aspettare con i pagamenti. Il loro aiuto è stato determinante. Se si incontrano persone oneste che ti danno fiducia si può fare tutto. Oggi non puntiamo a diventare un’azienda grossissima; ci bastano venti mucche in modo da poterne mungere dieci per volta, a rotazione. In questo modo riusciamo a fare tutto noi due».
Una volta iniziati i lavori è arrivato anche il caseificio aziendale dove lavorano il latte che mungono al mattino. Le due sorelle, quindi, si mantengono vendendo i prodotti trasformati: latticini, cacio cavallo e altri formaggi. La loro peculiarità sta nella materia prima. Lavorano, infatti,  con il latte crudo anziché con quello pastorizzato. Questo è possibile grazie al numero limitato di bovini che consente loro di mantenere standard qualitativi elevati.

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«Le nostre mucche vivono allo stato semi brado. Comandano loro e noi cerchiamo di starle dietro. Le mungiamo solo una volta al giorno, mentre altri lo fanno due o tre volte e lasciamo il vitellino con la madre almeno tre mesi, anziché separarlo dopo pochi giorni come fanno in molti. Le mucche sono quasi la nostra famiglia. Quando vivi sempre con gli animali, ti rendi conto che ogni animale ha una sua personalità e sensibilità».  Non ci sono solo mucche quindi.
«Abbiamo bovini, mucche, vitellini, maiali, due capre, un cavallo, cani e gatti». Non solo. La proprietà comprende 15 ettari di terreno e circa 25 in affitto. Qui coltivano fieno, grano, segale. Questi prodotti, una volta macinati nel loro mulino, in parte vengono utilizzati per nutrire gli animali, in parte venduti. Anche in questo caso, l’idea è di non ampliare troppo la produzione agricola, per mantenere un’agricoltura sostenibile, senza pesticidi.
Le soddisfazioni non hanno tardato ad arrivare. «Il primo anno non ci calcolava nessuno, il secondo è andata un po’ meglio, il terzo siamo andati alla grande, e adesso siamo vip e tutti ci vogliono stare vicini! – scherza Francesca, e poi continua – Nessuno credeva in noi, ci vedevano come delle pazze; è stata una bella soddisfazione passare dal “ma che devono fare quelle due”  al “ma ci aiutano loro”. Io sono contentissima. Credo proprio di restare qui in Calabria anche in futuro. Mi ricordo che quando ero piccola andavo dietro le mucche con il cavallo e pensavo che ero fortunata a vivere qui. Beh, quel pensiero ce l’ho sempre. Non mi cacciano!».

Fonte: https://www.italiachecambia.org/2020/02/due-giovani-donne-restano-calabria-allevano-animali-felici-io-faccio-cosi-281/?utm_source=newsletter&utm_medium=email

Funky Tomato, il pomodoro etico che supera il caporalato

Contrastare il caporalato, restituire dignità alle lavoratrici e ai lavoratori stranieri ed italiani, costruire una filiera agroalimentare naturale e biologica, promuovere una nuova economia etica. Il tutto partendo dal pomodoro, il cibo più pop del mondo. Nato nel 2015 nel sud Italia, il progetto Funky Tomato testimonia che è possibile costruire un modello di produzione sostenibile per chi lavora nei campi, per chi produce e per chi acquista e poi mangia. Cosa c’è dietro la produzione di una semplice passata di pomodoro? Quando penso a questo prodotto mi vengono in mente i miei nonni e zii che quando ero piccolo accendevano un grande fuoco e – dopo aver raccolto e macinato i pomodori – li facevano bollire per ore in bottiglie di recupero. Poi, rifletto, e penso a campi di pomodori intensivi, irrorati di sostanze chimiche e cresciuti a forza in serre lontane. Poi rifletto ancora e vedo le persone che lavorano su questi campi. Dentro e fuori le serre. In Italia e all’estero. Italiani, immigrati, uomini e donne, piegati nel piantumare e raccogliere, sottopagati, spesso senza contratto né diritti riconosciuti. Non solo. Se penso alla salsa di pomodoro dei miei nonni mi viene in mente un sapore intenso, spesso variabile, sicuramente autentico. Se penso alle salse di pomodoro del supermercato penso ad un sapore predefinito, zuccherato, sempre uguale a se stesso.  

E quindi? Perché vi sto raccontando le mie immaginazioni limitate su uno dei prodotti più utilizzati nelle cucine italiane e non? Per introdurre la storia di oggi, quella di Funky Tomato.

Già leggendo le prime righe della visione, sul loro sito, si capisce che l’approccio non è dei più tradizionali: “Funky Tomato individua nella partecipazione l’atto fondante di un cambiamento migliorativo delle condizioni economiche e sociali di individui e comunità nel loro insieme. Una visione che implica l’assunzione di responsabilità nella cura delle persone, dei territori, delle comunità coinvolte nella filiera agroalimentare”.  

Che c’entra la partecipazione con il sugo per la pizza e la pasta? Più avanti nella pagina si legge: “Funky Tomato vuole tracciare un solco percorribile da tutti, un progetto d’impresa pop, nel senso artistico e culturale del termine, e attraverso il cibo più pop del mondo – il pomodoro – e diffondere il messaggio che una nuova economica etica, equa e partecipata è possibile. […] per questo Funky Tomato vede nella varietà meravigliosa del mondo naturale la stessa bellezza multiforme che si ritrova nella molteplicità umana. La comunità Funky Tomato è fondata sul rifiuto di ogni forma di discriminazione, perché nasce dalle relazioni tra le persone, dalla socialità innata dell’essere umano”.  

Insomma, come si dice a Roma, “robba forte”. E la citazione romana non è un caso. Il fondatore di questa avventura, infatti, è proprio romano. Si chiama Paolo Russo, e – dopo gli studi – ha vissuto in molte zone del sud Italia, principalmente in Puglia. Ora ha la sua base in una meravigliosa cittadina nel nord della Calabria, Civita. Qui io e Paolo Cignini, in viaggio alla ricerca di nuove storie, lo incontriamo quasi per caso nei e dopo due giorni trascorsi insieme, lo intervistiamo.

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Paolo, seduto nel suo piccolo orto di casa, ci racconta come Funky Tomato sia nato nel 2015. In quell’anno il fenomeno del caporalato diventa di importanza pubblica, quando un evento drammatico raggiunge le cronache dei nostri mass

media: muore, infatti, una bracciante sul ‘campo’ – Paola Clemente – e Paolo viene coinvolto da una serie di ricercatori nel creare un modello che non rendesse necessario lo sfruttamento dei braccianti per mettere in piedi una produzione di pomodori sostenibile a livello economico ed ecologico. Sostenibile per chi lavora nei campi, per chi produce e per chi acquista e poi mangia.  

“Non ci riteniamo una impresa, ma un progetto sperimentale che ha l’ambizione di essere quanto più trasversale possibile e quanto più includente possibile – ci spiega Paolo – Abbiamo cercato di coinvolgere tutti i soggetti coinvolti nel processo produttivo. Tra questi i lavoratori e i consumatori, che normalmente non sono considerati come parte della filiera. Abbiamo deciso di ragionare sul processo dell’immigrazione come una cosa funk, una cosa che contamina la retorica della ruralità e utilizza la contaminazione per migliorare i propri processi. Noi riteniamo i braccianti, che sono in gran parte stranieri, delle risorse, un valore aggiunto, un’opportunità per proseguire con la nostra storia e la nostra visione agricola. Abbiamo scelto il pomodoro come rappresentazione principale delle problematiche legate allo sfruttamento del lavoro, ma anche perché questo ‘frutto’ dimostra come la contaminazione rappresenti un valore aggiunto: il pomodoro è arrivato in Italia – come prodotto esclusivamente ornamentale – con la ‘scoperta’ dell’America. Era giallo principalmente; una volta diffusosi a Napoli ha ridotto i livelli di solanina ed è diventato rosso ed è stato usato come prodotto alimentare. La contaminazione, quindi, dà vita a una nuova cultura e nuove tradizioni”.

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Per mettere a sistema questo processo e coinvolgere in modo veramente paritario i vari attori della filiera, è stato realizzato un contratto di rete: attraverso meccanismi mutualistici le diverse criticità possono così essere sostenute e remunerate. Questo strumento si differenzia nettamente dalla filiera agroalimentare convenzionale dove i rapporti sono ‘uno a uno’ e vengono quindi determinati dalla forza finanziaria dei singoli soggetti. Dentro Funky Tomato si genera così un processo osmotico: le realtà più forti sostengono quelle più deboli. Come detto, i braccianti e i consumatori sono attori del contratto di rete al pari di produttori e distributori. I primi hanno costituito una loro assemblea, i secondi partecipano attraverso i gruppi di acquisto. Non solo. Sono stati inseriti nella filiera anche formatori agricoli, creativi, ricercatori, studiosi di governance. Grazie all’incontro tra le diverse componenti sono arrivate proposte e soluzioni per i diversi problemi. Per combattere le logiche del caporalato, inoltre, si è cercato di contrastare la politica del cottimo secondo le quali un lavoratore vale l’altro, esattamente come se il loro lavoro fosse svolto da una macchina. Per questo Funky Tomato ha scelto di puntare su pomodori meno industriali possibili, puntando su varietà come il San Marzano, che richiedono una raccolta qualificata. In questo modo, il lavoro del bracciante diventa anche culturale ed è più difficilmente sostituibile. I lavoratori sono retribuiti rispettando le regole del contratto provinciale agricolo che costringe il datore di lavoro a limitare il numero di ore del bracciante a 6-8 per 5 giorni a settimana, riconoscendo sussidi di disoccupazione, prevenzione dei rischi e così via. Cose teoricamente scontate, ma troppo spesso ignorate, non solo sulla pelle degli immigrati, ma anche su moltissime donne italiane che spesso lavorano in questo settore.

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Le coltivazioni sono biologiche e naturali e sono situate principalmente al sud e in particolare in tre regioni, Puglia, Calabria e Campania. “In Campania – spiega Paolo Russo – produciamo nel più grande bene confiscato alla mafia, fondo rustico Amato Lamberti. Il bene è stato affidato alla cooperativa Resistenza Anticamorra. La disoccupazione è uno strumento del caporalato. Per questo lavoriamo a Scampia a Napoli. In Puglia, produciamo a Foggia con una OP, organizzazione di produttori, che lavora a 500 metri dalla più grande bidonville d’Europa. Volevamo incidere su questo territorio e confrontarci con chi ogni giorno vive questo fenomeno. In Calabria lavoriamo sul Pollino che è l’area a più alto rischio di spopolamento d’Europa, perché le aree interne sono totalmente dimenticate”. 

I risultati non hanno tardato ad arrivare. I consumatori entrano nel contratto di rete con un preacquisto dei prodotti, sostenendo così tutte le fasi di produzione della materia prima. L’avvio della produzione, nel 2015, fu finanziato con un fundraising di circa 40.000 euro. Nel 2018 il fundraising ha portato 120.000 euro, e ha generato un fatturato di circa 500.000 euro di pomodoro. Nelo 2019 il dato dovrebbe raddoppiare. Il tutto senza ricorrere a finanziamenti legati all’accoglienza o all’inclusione. “Questo – commenta Paolo Russo – significa che si può fare. Questo processo funziona e potrebbe essere replicato in altre filiere identiche alle nostre: pasta, olio, vino ecc.. Sulla nostra etichetta – conclude Paolo – c’è scritto che vogliamo alimentare la cultura. Funky Tomato porta avanti una rivoluzione culturale, non identifica un nemico ma crede che tutti siano parte della soluzione. Ecco perché una quota del nostro vasetto viene investita in progetti culturali legati al territorio su cui andiamo a impattare”.  

Riparto da Civita dopo aver mangiato una pasta con sugo Funky Tomato Tra le altre cose, devo ammetterlo, è proprio buono! 

 Intervista: Daniel Tarozzi

Realizzazione video: Paolo Cignini

 Fonte: http://www.italiachecambia.org/2019/07/funky-tomato-pomodoro-etico-che-supera-caporalato-io-faccio-cosi-254/?utm_source=newsletter&utm_campaign=general&utm_medium=email&utm_content=relazioni

La tradizione della canapa: una scommessa vincente

Una filiera locale che partendo dalla coltivazione della canapa arriva alla produzione e commercializzazione di prodotti derivati da questa pianta dalle straordinarie qualità. Nasce in Umbria dall’iniziativa di tre amici il progetto Le Canapaie, un esempio virtuoso di come investendo sulla tradizione e sulle risorse locali si possano creare opportunità lavorative nel segno dell’etica e della sostenibilità. Edoardo, Giacomo e Jacopo sono tre amici di Nocera Umbra che, come tanti, a un certo punto si sono chiesti come potevano migliorare la qualità della loro vita in modo etico e sostenibile. Si sono guardati intorno cercando di capire cosa esisteva nel loro territorio che presentasse delle possibilità per il futuro e, vista la quantità di terreni abbandonati, hanno pensato a come le risorse del territorio potessero prestarsi ad inventare nuove opportunità che consentissero loro di riavvicinarsi alla campagna e ad un modo di vivere più naturale e soddisfacente. Nel 2014 decisero di scommettere sulla canapa, lasciarono i loro lavori e misero in piedi una società, Le Canapaie, con l’intento di ricreare una piccola ma completa filiera locale che partisse dalla coltivazione per arrivare alla produzione e commercializzazione di prodotti derivati dalla canapa. La scelta fu di concentrarsi sugli utilizzi alimentari, in parte per il principio che vede l’alimentazione come elemento centrale di una sana qualità della vita, e in parte per considerazioni di mercato, oltre al fatto che altri utilizzi della canapa, come le produzioni tessili, di carta, corde e prodotti per la bioarchitettura non hanno ancora un mercato sufficiente e richiedono impianti per la lavorazione che attualmente non esistono in centro Italia.

L’intervista completa ai fondatori di Le Canapaie

Inizialmente affittarono terreni incolti e impiegarono le sottosfruttate risorse agricole locali. L’ambiente umbro si presta, la canapa è relativamente facile da coltivare e si adatta bene a climi e terreni diversi. I tre amici si dedicarono inizialmente a studiare le caratteristiche della pianta e iniziarono a sperimentare con semi diversi per verificare quali si prestassero meglio alla zona e al prodotto che volevano ottenere. Il primo passo fu dunque di coltivare varietà diverse fino ad ottenere i risultati voluti, cosa che fecero in prima persona su su piccola scala. Contemporaneamente iniziarono ad intessere rapporti con realtà locali che fossero adatte alla lavorazione e permettessero loro di ottenere i primi prodotti di una serie che si è andata gradualmente espandendo. Oggi Le Canapaie producono diversi tipi di farina, semi, pasta, olio e birra, tutti ottenuti impiegando aziende locali. Uno degli scogli iniziali fu quello di ottenere le certificazioni e permessi necessari alla coltivazione. Una volta risolti quegli aspetti si trattò di individuare le aziende necessarie alla lavorazione e convincerle della viabilità dell’idea da un punto di vista commerciale, oltre a superare il sospetto che ancora circonda qualsiasi iniziativa che abbia a che fare con la produzione di questa pianta straordinaria, che, nell’immaginario comune, viene associata al suo uso ludico, seppur si tratti di due varietà distinte della pianta. Il passo seguente fu quello di trovare un modo di distribuire e commercializzare i prodotti, puntando su un mercato nascente e offrendo una qualità alta e completamente biologica. Agendo sempre in autonomia e contando solo sulle proprie forze, senza investimenti esterni, i nostri amici iniziarono a partecipare a fiere e mercati, contattare direttamente punti vendita, facendo dimostrazioni e portando ovunque possibile i loro prodotti.

A quattro anni dalla partenza del progetto Le Canapaie funzionano, hanno allargato la loro produzione, diversificato la loro linea di prodotti e ad oggi la piccola impresa consente ai fondatori di mantenersi dignitosamente e con soddisfazione. Diverse persone vengono impiegate nelle varie fasi della coltivazione, raccolta e prima lavorazione, tutte fasi eseguite manualmente, con cura e senza necessità di grandi infrastrutture o attrezzature. Il lavoro è impegnativo e le sue fasi si svolgono nel corso di tutto l’anno, ma consentono un ritmo lavorativo armonico e gratificante. La scommessa ha pagato e, vista nel contesto sociale dell’Umbria di oggi, ha molto senso in quanto si riallaccia a tradizioni che hanno contraddistinto la regione per secoli, tiene conto delle caratteristiche naturali dell’ambiente, ricco di sorgenti di acque anche curative, e di ampi spazi che stavano rapidamente perdendo la loro vocazione agricola e artigianale. Importante è anche l’aspetto di interagire con realtà locali che già esistevano e spesso languivano nella mancanza di nuove opportunità. Tra le infinite proprietà della canapa bisogna ricordare anche la sua capacità di bonificare i terreni, cosa indispensabile oggi in zone dove monoculture come il tabacco hanno impoverito il suolo, e non richiede disinfestanti e agenti chimici dannosi per l’ambiente. Le Canapaie si propongono di ottenere risultati a lungo termine, nella creazione di una vera “canapa-cultura” con la creazione di biodistretti e perseguono collaborazioni con le università e l’ambito della ricerca, in vista di nuovi e più ampi utilizzi della canapa.

Molte zone dell’Italia si stanno spopolando per mancanza di opportunità e spesso i giovani che vivono in aree lontane dalle città vedono l’emigrazione come unica possibilità di crearsi un futuro, eppure la ricchezza del territorio, se analizzata con raziocinio unito all’immaginazione, può offrire infinite opportunità. Conoscere e comprendere l’ambiente che ci circonda, scoprirne le potenzialità e reinterpretarle nel contesto della società di oggi e di quella che vorremmo per il futuro, è una strada aperta e ricca di possibilità. Quello delle Canapaie è un esempio di come inventarsi un’attività sostenibile e soddisfacente è possibile, anche in un contesto che non è dei più favorevoli, senza necessità di grossi investimenti, a patto di guardarsi intorno e comprendere quali sono le risorse che l’ambiente offre e sempre tenendo presente che i sogni sono a volte più realizzabili di quanto si pensi e nel renderli reali si può anche dare inizio ad una reazione a catena che porta benefici non solo direttamente agli artefici, ma anche all’ambiente e le persone che li circondano.

Il contesto regionale in breve

Il numero di piccole giovani aziende che si occupano di canapa in vari settori sta crescendo in Umbria. Molti progetti di ricerca sono in via di sviluppo presso varie università in regione, tesi a verificare la fattibilità di diversi usi specifici della canapa. Un ostacolo considerevole ad uno sviluppo di rilievo per il settore è la mancanza di uno stabilimento per la lavorazione di tutte le parti della pianta. Ne esistono solo due in Italia, in Piemonte e in Puglia, e la distanza rende economicamente non praticabile trasportare la materia prima ad uno o l’altro di questi stabilimenti.

Il potenziale del settore è enorme e interessa diversi ambiti, dall’agricoltura alla produzione alimentare, dall’artigianato alla piccola industria nei settori tessile, cartario, delle bio-plastiche e soprattutto edilizio, quest’utimo particolarmente importante dato il ricorrere di eventi sismici in Italia e le eccellenti proprietà antisismiche dei manufatti in canapa per l’edilizia. Altre nazioni hanno deciso di investire nel settore per rivitalizzare aree in via di abbandono, l’esempio più vicino è quello della Francia, dove investimenti pianificati in modo organico e su lunghe scadenze stanno dando risultati molto positivi, indicando una via che sarebbe perseguibile anche in Italia con investimenti moderati e ritorni su larga scala, sia dal punto di vista economico che ambientale e sociale. Ci auguriamo che le amministrazioni locali si rendano conto del potenziale di questa filiera e decidano di investire nelle infrastrutture necessarie affinché le piccole giovani aziende come Le Canapaie possano ampliare la loro attività e fare da traino ad un contesto produttivo che potrebbe creare lavoro e sviluppo in modo ecologico e sostenibile, nel rispetto delle tradizioni e dell’ambiente di questa splendida regione. 

Per saperne di più clicca qui Fonte:  http://www.italiachecambia.org/2019/02/tradizione-canapa-scommessa-vincente/?utm_source=newsletter&utm_campaign=general&utm_medium=email&utm_content=relazioni

L’Alveare che dice Sì!: in un anno +157% di utenti registrati e aumentato del 140% il fatturato dei produttori

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L’Alveare che dice Sì!, la startup che unisce tecnologia e agricoltura sostenibile, festeggia oggi il secondo compleanno con 52.000 utenti registrati (+157% rispetto al 2016). Gli Alveari che in Italia permettono di vendere e comprare prodotti locali e genuini salgono a 161; ogni mese vengono effettuati oltre 6.000 ordini tramite piattaforma o app mobile (+152% rispetto al 2016) e i produttori registrano un fatturato totale di 1.300.000 euro. A Milano la prima gestrice che riesce a “vivere di Alveare” con un vero e proprio stipendio.

Comoda, innovativa e a Km0: la spesa degli italiani è sempre più green e a dimostrarlo sono i numeri con cui L’Alveare che dice Sì!, la startup che unisce tecnologia e agricoltura sostenibile, festeggia il suo secondo compleanno. Aumentano infatti del 157% i membri iscritti sulla piattaforma dei Gruppi di Acquisto 2.0 che consente di vendere e comprare i prodotti locali utilizzando il web.

La community si allarga: 52.000 utenti registrati (+157%)

Eccezionale l’aumento di utenti della community de L’Alveare che dice Sì! che sulla piattaforma vendono o comprano i prodotti a Km0: in un solo anno le iscrizioni sono passate da 20.173 a 52.000. In particolare, i produttori che partecipano al progetto sono triplicati, passando dai 392 di fine 2016 ai 1.200 con cui Alveare festeggia il secondo anno in Italia.

Crescono gli Alveari in Italia (+39%): Lombardia regione più virtuosa

Sono 161 gli Alveari nati su tutto il territorio italiano in soli 2 anni: nel 2017 si è registrata una crescita pari al 39% rispetto al 2016. La regione più virtuosa e più attenta alla valorizzazione dei prodotti a Km0 si conferma la Lombardia, dove sono presenti ben 50 Alveari, di cui 16 a Milano, con 325 produttori coinvolti e 20.000 iscritti al portale. Sul podio salgono anche Piemonte, con 46 Alveari (di cui 18 a Torino), e Lazio (21 Alveari di cui 14 a Roma. Seguono Toscana (12), Emilia Romagna (11), Veneto (8). Liguria, Calabria e Puglia contano 2 Alveari, mentre Trentino, Campania, Sardegna e Sicilia stanno portando avanti lo spirito de L’Alveare che dice Sì! con un primo Gruppo d’Acquisto.
Tramite la piattaforma o la app mobile di Alveare sono invece in media 6.300 gli ordini mensili fatti dai consumatori, contro i 2.500 del 2016 (+152%), il che permette ad oggi di calcolare in totale un fatturato di 1.300.000 € per i produttori della rete, con un aumento del 140% rispetto all’anno precedente. La località dei prodotti è garantita a livello nazionale: la distanza media tra i produttori e gli Alveari è pari infatti a 32 km. Tra le regioni più virtuose spicca in questo caso il Piemonte, dove la distanza media tra produttore e Alveare è pari a soli 26 km, mentre Torino è la città con produttori e consumatori più vicini (15 km). Nel corso del 2017 sono state introdotte anche alcune distribuzioni speciali, per promuovere le eccellenze locali su tutto il territorio italiano, con le iniziative ‘Dal Km0 al KmUtile’ alle quali hanno partecipato dei produttori ‘invitati’ da oltre 250 km, che hanno distribuito negli Alveari d’Italia prodotti di largo consumo ma non sempre di facile reperibilità: dalle mozzarelle di bufala alla passata di Funky Tomato, che recupera lavoratori vittime del caporalato, dal parmigiano di montagna all’olio pugliese, fino ad arrivare alle arance siciliane.

“La nostra rete si sta espandendo e sta coinvolgendo sempre più consumatori attenti alla qualità e alla vicinanza dei prodotti. Lo dimostra il fatto che alcune città come Torino e Milano presentano un Alveare quasi in ogni quartiere”, spiega Eugenio Sapora, fondatore di L’Alveare che dice Sì!. “Nel 2017 abbiamo allargato il team centrale dell’Alveare, composto ora da 8 membri. Obiettivo del 2018 – conclude il fondatore – è continuare la crescita in ogni settore, investendo soprattutto nel supporto alla rete attiva sul territorio italiano, per renderla sempre più solida e stabile, e sostenere la nascita di nuovi Alveari”.

Grande importanza e attenzione verrà rivolta ai gestori, che hanno il compito di tenere il contatto tra agricoltori e produttori locali, organizzare le vendite, divulgare il progetto e individuare il luogo fisico per la distribuzione dei prodotti. “In questo modo, offriamo anche un’opportunità all’interno della Gig Economy, permettendo a giovani studenti, pensionati, casalinghe, disoccupati ma anche a qualsiasi appassionato di cibo di reinventarsi e di inserirsi nel mondo del lavoro con un’occupazione part-time”. Un’occupazione che diventa sempre più appetibile, anche economicamente, come dimostra la storia di Ileana Iaccarino, prima prima gestrice che con due Gruppi di Acquisto a Milano (via Losanna e quartiere Isola) riesce a “vivere di Alveare” con un vero e proprio stipendio. “Il gestore di un Alveare diventa un vero e proprio punto di riferimento per la propria comunità e per i produttori che se credono davvero nel progetto lo sposano fino in fondo, dando fiducia al gestore stesso”, spiega Ileana. “Ci vuole impegno e passione, ma si ottengono risultati bellissimi anche in termini di condivisione e sinergia”.

Come funziona L’Alveare che dice Sì!

Fondata da Eugenio Sapora il 4 dicembre 2015 presso i locali dell’Incubatore I3P del Politecnico di Torino, L’Alveare che dice Sì! unisce tecnologia e sharing economy per permettere una distribuzione efficiente dei prodotti locali tra agricoltori e consumatori: gli Alveari sono infatti dei Gruppi di Acquisto 2.0 che consentono ai produttori locali presenti, nel raggio di 250 km, di unirsi e mettere in vendita online frutta, verdura, latticini, carni, formaggi e molto altro. I consumatori registrati  possono acquistare ciò che desiderano presso l’Alveare più vicino a casa, ordinando e pagando direttamente online, per poi ritirare la spesa settimanalmente in un luogo fisico, il vero e proprio “Alveare”, che può essere un bar, un ristorante, un co-working, una sala. Il progetto ha avuto origine in Francia nel 2011, dove da subito ha riscontrato un enorme successo, vantando tra i suoi fondatori Mounir Mahjoubi, Segretario di Stato al Digitale in Francia.

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Chi è L’Alveare che dice Sì!

L’Alveare che dice sì! è una startup nata nel 2016 e incubata presso Treatabit, il percorso per le startup digitali dell’Incubatore I3P del Politecnico di Torino. Il progetto ha origine in Francia nel 2011 col nome di “La ruche que dit oui”, e da subito ha ottenuto un enorme successo. L’Alveare che dice Sì!, attraverso il portale www.alvearechedicesi.it, permette a produttori locali e cittadini di unirsi per sostenere il consumo di prodotti freschi, genuini e a Km0.

Maggiori informazioni su www.alvearechedicesi.it

 

Fonte: agenziapressplay.it

Agricoltura sostenibile: usare un drone per limitare i pesticidi

PBK, startup dell’incubatore I3P del Politecnico di Torino, sta sperimentando un drone in grado di effettuare trattamenti mirati nei campi agricoli. Per risparmiare fitofarmaci e avere meno pesticidi nel piatto.agricoltura-drone-pesticidi

Meno pesticidi in agricoltura, meno pesticidi nel piatto. Questa è l’idea che sta alla base di una agricoltura sostenibile, dalla quale possa derivare una alimentazione sana e sicura per tutti noi. La tecnologia, per fortuna, può aiutare molto a raggiungere questi obiettivi. PBK, startup dell’incubatore I3P del Politecnico di Torino, sta lavorando in questa direzione con un primo prototipo di drone UAV (cioè radioguidato a distanza) finalizzato alla agricoltura di precisione. Cioè quel tipo di agricoltura che utilizza le più moderne tecnologie per minimizzare il lavoro e gli interventi fitosanitari in campo. Ad esempio tramite l’utilizzo di un GPS che, collegato alle macchine agricole, permette la guida automatica di trattori e mietitrebbiatrici. Oppure, come nel caso del “PBKopter“, tramite l’utilizzo di un drone che grazie alla elevata libertà di movimento può raggiungere i punti più ostici di una coltura agricola e spruzzare gli agrofarmaci solo dove effettivamente serve. Una strategia, per capirci, esattamente opposta a quella attualmente in uso negli Stati Uniti.

I trattamenti mirati – spiegano gli ideatori del drone – consentono di utilizzare solo la quantità di fitofarmaci necessari a garantire l’efficacia dell’azione, senza dispersioni nell’aria o a terra, con contenimento dell’inquinamento anche acustico“.
Con lo stesso drone si possono ottenere benefici, ad esempio, nella lotta alle zanzare: la leggerezza e manovrabilità del PBKopter permette interventi estremamente mirati e selettivi, ben diversi dalle vecchie disinfestazioni massicce effettuate spruzzando centinaia di litri di prodotti chimici sulle piante. Un esempio pratico sono le immense risaie del nord Italia, dove l’ambiente estremamente umido è perfetto per la proliferazione delle zanzare. Fino ad oggi, per limitare il problema, si è ricorso all’uso di elicotteri che spruzzavano veleno anti zanzare dal cielo, disperdendone una gran parte dove non serviva. Con il passaggio ai droni si potrà, al contrario, utilizzare solo la quantità realmente necessaria di prodotti chimici con un enorme risparmio economico e una maggior tutela per l’ambiente.

Fonte: ecoblog.it

 

Orto bioattivo: oltre il biologico. Il cambiamento che passa dal cibo che mangiamo

L’agricoltura bioattiva non è una semplice alternativa all’agricoltura tradizionale ma un vero e proprio impulso alla consapevolezza a 360 gradi sul nostro cibo: dalla sua produzione alle sue qualità organolettiche e nutrizionali.9541-10298

Si tratta di una visione che parte dalla centralità del rispetto alla terra, ai suoi tempi e cicli naturali, garantendo nel tempo la sua rigenerazione. I sistemi di lavorazione intensivi, infatti, impoveriscono gradualmente il suolo che deve essere continuamente arricchito con sostanze chimiche di sintesi per essere in grado di produrre in continuazione ed assicurare profitto. L’agricoltura bioattiva si propone come un nuovo metodo agronomico fondato su basi scientifiche e misurabili che trae il fondamento da leggi microbiologiche e naturali. L’approccio è una combinazione delle scienze e delle tecniche moderne (microbiologia rigenerativa e nutraceutica dei cibi) ma è fondato sul rispetto delle leggi naturali dalle quali dipendono tutti gli esseri viventi del pianeta. Il metodo può essere applicato a strutture di orti rialzati, orti urbani, piccoli orti come in campo aperto.

Ne parliamo con Andrea Battiata, ideatore del metodo, agronomo e Consigliere della Società Toscana Orticultura.

Può presentarsi?

Sono un Osservatore della Natura e neovegetariano flessibile. Riassumendo molto brevemente, da agronomo, ho avuto esperienza nell’allevamento di vacche da latte in Maremma per poi dedicarmi al vivaismo e alle piante ornamentali. Da quando sono diventato principalmente vegetariano ho studiato un metodo per produrmi cibo veramente nutriente per non dipendere da quello che trovavo in commercio che non mi soddisfaceva.

Che cos’è un orto bioattivo?

L’ortobiottivo è un esempio di come sia possibile produrre cibo ad alto contenuto nutrizionale (nutraceutico – bioattivo) prendendosi cura della fertilità naturale del terreno. Racchiude i meccanismi microbiologici osservati nel biotopo più fertile in natura: la foresta pluviale.

Come funziona esattamente?

Non è necessario lavorare la terra, non ci sono arature né zappature. Il suolo è naturalmente ricco ma in seguito alle lavorazioni viene alterato. Rigirando il terreno si interrompe, infatti, l’azione combinata degli essudati radicali, dei residui organici e dei batteri generando uno squilibrio. L’agricoltura tradizionale interviene utilizzando sostanze chimiche e fertilizzanti di sintesi. L’effetto però è temporaneo, il suolo si impoverisce dando la possibilità dello sviluppo di patologie. L’agricoltura tradizionale inquina, inoltre, le falde acquifere. Il suolo non viene mai compattato per far sì che ci sia la giusta areazione e non si usano concimi. Cerchiamo di ricreare ciò che accade normalmente in natura: una piantagione densa di piante a differenti stadi di crescita con diverse caratteristiche. Le radici non vengono estirpate e le erbe spontanee fanno parte di questo sistema. Si copre il terreno con una pacciamatura attiva: rami di bosco frammentati. Si tratta del sistema che in Francia si chiama BRF (Bois e Rameaux Fregmentés) che permette di risparmiare acqua. Le ramaglie sminuzzate arricchiscono il suolo e trattengono l’acqua consentendone un notevole risparmio. Il terreno normalmente migliora in breve tempo. C’è inoltre l’associazione delle piante in modo mirato. Le associazioni benefiche aiutano a controllare i parassiti.

Quali sono i vantaggi?

Avere la possibilità di far crescere il nostro cibo con il massimo di vitamine, sali minerali, enzimi, antiossidanti in modo da riappropriarci della nostra salute, recuperare il rapporto con la natura acquisendo consapevolezza delle stagioni e dei cicli naturali, fare più esercizio fisico e aiutare il nostro pianeta. Si diventa custodi della Terra: si contribuisce alla conservazione della biodiversità, si recuperano tecniche tradizionali ormai sostituite da tecniche industriali.

Chi ha avuto l’idea, quanti siete e come siete partiti?

Più che di un’unica idea parlerei di un’ “esigenza” condivisa. Siamo in molti a sentire la necessità di alimentarci in modo sano ma spesso non sappiamo come farlo né come trovare un cibo prodotto da qualcuno di cui ci si possa fidare. A dire il vero chi è stato a darmi lo stimolo o, possiamo dire a provocarmi, è stata mia moglie! Ero insoddisfatto del cibo che trovavo e mi ha provocato dicendomi di coltivarmi da solo il cibo che volevo. Così, con l’aiuto di colleghi agronomi, agricoltori, università e appassionati, ho messo insieme i pezzi di un puzzle già esistente dandogli organicità e concretezza.

Qual è il vostro progetto?

Mettere in atto azioni tangibili per riprendere il controllo di quello che mangiamo. Proporre un metodo che superi il concetto di biologico e che sia in grado di garantire la qualità del cibo prodotto e non soltanto la certificazione della filiera. I progetti aperti in questa visione sono molti, con università (ricerca scientifica e sostenibilità), con le scuole primarie e secondarie, con l’Orto botanico di Firenze, con aziende agricole del territorio, etc…

Quali sono le differenze con un orto sinergico e con quello biodinamico? Puoi farci qualche esempio pratico anche relativamente al suolo, alla semina, alla pacciamatura e altre pratiche?

Abbiamo preso dalle esperienze del passato inclusa quella della Hazelip e di Steiner. Abbiamo semplicemente attualizzato i loro principi e integrato con quello che abbiamo imparato recentemente dall’osservazione della natura aiutati dalle ricerche scientifiche di laboratorio.

Qual è il vostro obiettivo?

Elenco di seguito gli obiettivi che è possibile raggiungere con l’ortobioattivo

ª  realizzazione di un terreno ad alta fertilità naturale

ª  produzione ortaggi di alta qualità (bioattivi – nutraceutici) e biologici

ª  rendere il sistema di facile gestione

ª  non usare alcun mezzo meccanico: il terreno non viene mai zappato, rivoltato, compattato

ª  risparmio idrico con la copertura permanente del terreno

ª  assenza di inquinamento delle falde acquifere

ª  ottenere insalate con bassi contenuti di nitriti

ª  utilizzo materie prime locali (sabbie vulcaniche locali vs torba di importazione)

ª  attivare meccanismi di fertilità autorigenerante

Rispetto a un orto tradizionale com’è la produzione?

Qualitativamente gli ortaggi sono ricchi in sostanze nutraceutiche – bioattive. Quantitativamente la resa è dalle 5 alle 10 volte superiore.

Tutti possono fare un orto bioattivo?

Certamente! Una volta avviato è semplicissimo da gestire. Basta garantire che una volta raccolto (senza estirpare le radici) si ripiantino subito altri ortaggi e che venga mantenuta la pacciamatura.

E’ immaginabile un’agricoltura bioattiva su larga scala e quindi non solo per l’orto di casa?

Certamente. E’ la sfida in corso quest’anno. Abbiamo già esteso il metodo ad un appezzamento di terreno in grado di soddisfare il fabbisogno di molte famiglie per tutto l’anno.

Quanto è grande il vostro orto?

Ne esistono molti e il metodo di Ortobioattivo può essere applicato anche su sodo e non necessariamente solo su letti rialzati. Comunque, il più grande realizzato su letti rialzati ha una superficie di circa 500mq ed è in espansione!

Quanti orti bioattivi esistono in Italia o all’estero, se ce ne sono?

In italia sono circa 30. All’estero ci sono progetti per le isole canarie ma ancora è troppo presto per svelare i prossimi passi!

Chi volesse saperne di più:

www.ortobioattivo.com    ortobioattivo@gmail.com   https://www.facebook.com/ortobioattivo/

Fonte: ilcambiamento.it

Dentro al santuario degli attivisti pro-ogm

L’anno scorso su twitter il vicepresidente di Monsanto, Robert Fraley, postò il link a un articolo secondo cui coloro che mantengono diffidenze nei confronti degli ogm sarebbero confusi, spinti dall’ideologia o vittima di disinformazione conseguenza dell’accesso libero alla cosiddetta “università di Google”, o addirittura teorici della cospirazione. Non avvertite anche in Italia la tendenza a etichettare così chi è critico? L’invito è a leggere le acute riflessioni di Colin Todhunter, scrittore indipendente che pubblica su diverse testate, tra cui Countercurrents e Global Research.ogm_ricerca_scienza

Dall’articolo di Colin Todhunter: QUI.

QUI il link postato da Fraley.

Fraley si chiedeva perchè le persone dubitassero della scienza e dava l’idea che coloro che criticavano gli ogm fossero degli agitatori o degli adepti della pseudo-scienza, spiega Todhunter nel suo articolo.

«L’industria e la sua corte di attivisti pro-ogm nel mondo scientifico e nei media hanno una visione del mondo che esige che la popolazione si inchini a qualche sorta di sacerdote della scienza le cui conoscenze e opinioni non devono mai essere messe in discussione (ascoltate questa recente presentazione alla Oxford Real Farming Conference, dal minuto 17:00). Esigono che crediamo ciecamente nella capacità della scienza di risolvere i problemi dell’umanità. Deferenza e fede sono le chiavi della religione. Il problema è che ricche multinazionali e ricchi individui hanno manipolato l’idea di scienza e sono riusciti a distorcere la ricerca scientifica. Hanno trasformato la loro vasta influenza economica in influenza politica, in controllo della scienza e delle istituzioni scientifiche. Il risultato è che gli istituti scientifici, i programmi di ricerca e chi la ricerca la fa sono oggi troppo spesso servi compiacenti degli interessi delle multinazionali. Lungi dal rendere libera l’umanità, il controllo della scienza e della ricerca scientifica e il dibattito influenzato dai media sono diventati uno strumento di inganno».

«La ragione per la quale così tante persone dubitano della scienza sta nel fatto che vedono quanto sia corrotta e manipolata dalle multinazionali. Quindi ritengono tali multinazionali irresponsabili e le loro attività e prodotti non adeguatamente regolati dai governi». Il sociologo Robert Merton ha sottolineato  come il patto tacito su cui si dovrebbe fondare la scienza vorrebbe una ricerca non dedita ad interessi personali, la vorrebbe votata alla proprietà intellettuale condivisa e comune, alla collaborazione e impegnata ad assoggettare i risultati a scrutinio organizzato e rigoroso. Non dovrebbero esistere i segreti, i dogmi e gli interessi privati».

«La realtà – prosegue Todhunter – è che le carriere, le reputazioni, gli interessi commerciali e i finanziamenti, tutto va nella direzione di minare questi fondamenti».

Scienza distorta, verità alterata

«Nel 2014 il segretario Usa per l’agricoltura, Tom Vilsack,invocava dati scientifici solidi a sostegno degli scambi alimentari tra Usa ed Europa. Le associazioni dei consumatori in Usa stanno spingendo per l’etichettatura degli ogm, ma Vilsack ha detto che mettere un’etichetta sugli alimenti per dire che contengono ogm “rischia di dare l’errata impressione che ci siano problemi di sicurezza”. Malgrado quanto Vilsack vuole farci credere, molti studi scientifici dimostrano che gli ogm rappresentano realmente un grosso problema di sicurezza e hanno anche conseguenze pesanti a livello ambientale, sociale ed economico (per esempio QUI su ogm e pesticidi in Argentina , QUI su come l’agricoltura ogni rappresenti un ecocidio in Sud America e QUI sugli effetti e l’impatto degli ogm)».

Vilsack non vuole permettere che i consumatori, malgrado lo richiedano, sappiano cosa mangiano; sta cercando di chiudere un dibattito scomodo per le multinazionali, perchè l’etichettatura darebbe la possibilità alla gente di rifiutare gli ogm. Eliminando i confronti aperti sugli ogm si vuole naturalmente chiudere la bocca a tutti i critici ed eliminare la discussione scientifica, politica e pubblica.

«Il concetto di scienza solida è stato manipolato – continua Todhunter – per un obiettivo preciso: gli ogm sono una strategia portata avanti dall’agrobusiness mondiale per controllare la proprietà intellettuale e le catene di approvvigionamento alimentare a livello globale».

«L’industria conduce studi inadeguati, a breve termine e nasconde i dati prodotti dalle proprie ricerche adducendo il segreto commerciale, ma ci sono ormai numerose ricerche che evidenziano i pericoli e i potenziali effetti dannosi degli ogm (si veda QUI e QUI). È stata accusata di falsità in India, di corruzione in Indonesia e intimidazioni contro chi sfida gli interessi delle multinazionali, così come di distorsione e censura dei dati scientifici  (si veda QUI e QUI)».

«Con l’obiettivo di modificare gli organismi per creare brevetti che assicurino sempre maggiori controlli su sementi, mercati e catena alimentare, il settore degli ogm si preoccupa solo di un certo tipo di scienza, quella che sostiene gli obiettivi dell’industria. Se veramente la scienza è tenuta in così alta considerazione da queste multinazionali, allora perché negli Usa non si etichettano i cibi ogm e non si permette che gli studi delle industrie siano pienamente accessibili e sottoposti a pubblico controllo invece di tenerli segreti, limitare la ricerca indipendente o ricorrere a tattiche manipolatorie? Se la scienza è tenuta in così alta considerazione dal settore degli ogm, perché allora in Usa si è permesso che i cibi ogm arrivassero sul mercato senza adeguati test a lungo termine? L’argomento usato come giustificazione è che i cibi ogm sono sostanzialmente equivalenti al cibo convenzionale. Ciò è sbagliato (si veda anche QUI). La “sostanziale equivalenza” è una strategia di mercato che semplicemente sottrae gli ogm dal tipo di controllo solitamente applicato alle sostanze potenzialmente tossiche o pericolose».

«Le industrie degli ogm sanno di soccombere nel dibattito scientifico (malgrado i pr assoldati sostengano il contrario), quindi catturano l’attenzione del pubblico propagando menzogne. Parte di esse si fondano sull’emotività: il mondo ha bisogno degli ogm per sconfiggere la fame. Ormai questo mito è crollato (si veda QUI , QUI e QUI)».

«La fede della gente nella ricerca è stata scossa a più livelli, non ultimo perché le multinazionali hanno accesso garantito alle decisioni politiche e stanno finanziando sempre di più la ricerca. Dice Kamalakar Duvvuru: “Andrew Neigbour, ex amministratore della Washington University di St. Louis, che ha gestito il legame milionario con la Monsanto, ammette che il denaro dell’industria arriva a certe condizioni: limita ciò che si fa, quando lo si fa e chi deve approvarlo”. La realtà è che Monsanto sta finanziando la ricerca non a beneficio dei contadini o della gente, ma per i propri interessi commerciali». La gente non dubita della scienza in sé, ma della scienza assoggettata alle pressioni delle multinazionali che vogliono ottenere risultati compiacenti oppure bypassare certe procedure. Basti leggere il rapporto Seedy Business per capire come la scienza sia vittima dell’agrobusiness. Scrive Claire Robinson: «Non sorprende che molti scienziati di enti pubblici e organizzazioni si alleino con l’industria degli ogm, dal momento che dipendono pesantemente dai fondi che arrivano da lì. Le multinazionali degli ogm hanno rappresentanti nei comitati universitari e della ricerca così come tra i decisori politici. Monsanto ha donato almeno un milione di dollari alla University of Florida Foundation. Alcuni scienziati accademici sono titolari di brevetti e sono coinvolti in spin-off che sviluppano ogm».

Per non parlare della revisione degli articoli che approdano sulle riviste scientifiche.

Scienziati come preti: opinioni personali mascherate da fatti

«Gli scienziati non rendono giustizia nè a se stessi nè alla scienza quando smerciano retorica sugli ogm». Si pensi a chi ha dichiarato che Greenpeace dovrebbe essere accusata di crimini contro l’umanità per la sua ferma opposizione agli ogm».

«Oppure a chi sostiene che certi enti agiscono come regimi totalitari responsabili della morte di milioni di persone solo perché propongono argomenti credibili e scienza a supporto della critica agli ogm».

«La realtà è che la retorica è il tentativo di chiudere la bocca ai critici e di marginalizzare le analisi legittime sulle vere cause della povertà e della fame e le soluzioni vere per un’agricoltura sostenibile che può sfamare l’umanità».

 

Fonte: ilcambiamento.it

Legge sulla Biodiversità: Il Senato approva. Il testo ora passa alla Camera

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Il Senato, con 211 voti favorevoli e 4 astenuti, ha approvato il disegno di legge sulla tutela e valorizzazione della biodiversità agraria e alimentare. Il testo ora dovrà tornare alla Camera per l’approvazione definitiva. Il provvedimento dispone la creazione dell’Anagrafe, della Rete, del Comitato permanente e del Portale nazionale, che andranno a costituire il sistema nazionale di tutela e di valorizzazione dell’agricoltura sostenibile. L’approccio della norma tenta di sistematizzare tutti i passaggi della filiera, attraverso educazione e integrazione delle competenze. Ricerca, conservazione e distribuzione, dunque, dovrebbero divenire momenti di un unico processo. Inoltre, il nuovo programma appoggia la lotta ai cambiamenti climatici e, quindi, si oppone alla deforestazione selvaggia. I punti più interessanti della legge, riportati anche nel comunicato di seduta del Senato, sono così riassumibili: 1) libero scambio delle sementi all’interno della Rete nazionale della biodiversità agraria e alimentare; 2) istituzione del Registro della biodiversità agricola, con l’agricoltore che ne diventa custode; 3) 500mila euro l’anno per il Fondo per la tutela della biodiversità e la creazione di una giornata sulla biodiversità agricola il 22 maggio; 4) sensibilizzazione dei giovani attraverso le scuole e il finanziamento di progetti da parte del ministero dell’Ambiente. La senatrice del Pd, Leana Pignedoli, relatrice del provvedimento, ha evidenziato che “l’obiettivo del ddl, è quello di dettare una normativa quadro che integri e metta a sistema la legislazione regionale, gli indirizzi di carattere internazionale e l’ordinamento nazionale nella materia“. Come riporta il quotidiano Repubblica, anche il Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali, Maurizio Martina, si è detto soddisfatto per l’approvazione a Palazzo Madama. Ed ha aggiunto: “La legge sulla tutela della biodiversità rappresenta un passo fondamentale in questo senso: l’obiettivo è quello di salvaguardare la distintività delle nostre ricchezze naturali, vegetali e animali. Con questo provvedimento, infatti, riconosciamo il ruolo attivo che gli agricoltori svolgono come custodi del paesaggio e della biodiversità, per la conservazione dei nostri territorio“. Sul ddl hanno votato a favore anche i senatori del Movimento 5 Stelle. A tale riguardo, la senatrice Daniela Donno ha dichiarato: “In merito alla discussione del disegno di legge 1728 sulla biodiversità agraria e alimentare abbiamo formulato proposte migliorative, ed alcune sono passate in Commissione Agricoltura al Senato. Abbiamo ottenuto tempi legislativi certi: 90 giorni per l’emanazione del decreto ministeriale riguardante il Comitato permanente per la biodiversità agraria e alimentare. Nessuno finora si era posto il problema del termine temporale

Fonte: ecoblog.it