Incendi: a rischio in Africa la seconda foresta pluviale del pianeta

Da settimane le fiamme stanno devastando diversi Paesi africani mettendo a rischio la foresta pluviale del Congo che ospita milioni di indigeni, custodisce migliaia di specie animali e vegetali e immagazzina 115 miliardi di tonnellate di CO2. Dopo gli incendi in Siberia e Amazzonia, Greenpeace rilancia l’allarme: “Se non proteggiamo le foreste, non saremo in grado di affrontare la crisi climatica che stiamo attraversando”.

Dopo la Siberia e l’Amazzonia, anche la foresta pluviale del bacino del Congo, la seconda più grande al mondo, rischia di essere colpita da incendi indomabili, come già accaduto nel 2016. In meno di una settimana – dal 21 agosto – sono stati documentati oltre 6.902 incendi in Angola e 3.395 incendi nella vicina Repubblica Democratica del Congo, principalmente in aree coperte dalla savana, un bioma che si trova in molte zone di transizione tra la foresta pluviale e il deserto o la steppa.

Incendio in una foresta (immagine generica tratta da Pixabay)

«Facciamo presto. In Siberia e Amazzonia sono mancati interventi tempestivi e gli incendi hanno assunto proporzioni drammatiche. Chiediamo ai governi dei Paesi del bacino del Congo di adottare misure adeguate per impedire che le fiamme dalla savana si diffondano nella foresta», dichiara Martina Borghi, campagna foreste di Greenpeace Italia. La foresta del bacino del Congo ospita milioni di indigeni che ne sono anche i principali custodi, nonché migliaia di specie animali e vegetali. Immagazzina inoltre 115 miliardi di tonnellate di CO2 – equivalenti alle emissioni di combustibili fossili prodotte dagli Stati Uniti in 12 anni – giocando quindi un ruolo fondamentale per regolare il clima del Pianeta. La crescente domanda globale di risorse naturali come legname e petrolio, e di materie prime agricole, rappresenta una seria minaccia per la regione. Circa un quarto della superficie forestale totale del bacino del Congo (50 milioni di ettari) appartiene già a multinazionali che deforestano per fini industriali.

«I cambiamenti climatici e le attività industriali che si svolgono nella foresta la rendono più vulnerabile agli incendi. È necessario porre fine a tutte le attività industriali che minacciano questa preziosa foresta: se non proteggiamo le foreste, non saremo in grado di affrontare la crisi climatica che stiamo attraversando», afferma Borghị. 

«Invece di dare concessioni a multinazionali che traggono profitto dalla distruzione delle foreste, i diritti di gestione delle foreste devono essere trasferiti alle Popolazioni Indigene, nel rispetto delle loro conoscenze tradizionali e degli standard ambientali». Fonte: http://www.italiachecambia.org/2019/08/incendi-rischio-africa-seconda-foresta-pluviale-pianeta/?utm_source=newsletter&utm_campaign=general&utm_medium=email&utm_content=relazioni

Survival e Wwf: rotta la trattativa per salvaguardare i diritti dei nativi in Africa

La storica mediazione tra Survival e il WWF sulla violazione delle Linee Guida OCSE destinate alle imprese multinazionali si è interrotta sul tema del consenso dei popoli indigeni.

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Si spezza l’esile filo che teneva in piedi la trattativa tra Survival, l’associazione che difende i diritti dei popoli indigeni, e il  WWF, accusato di appoggiare coloro che puntano a cacciare le tribù dai loro luoghi originari in nome di un conservazionsimo che Survival critica da sempre.

«Avevamo chiesto al WWF che si impegnasse ad assicurare che vi fosse il consenso dei ‘Pigmei’ Baka rispetto alle future modalità di gestione delle aree di conservazione create nelle loro terre in Camerun, in linea con la politica sui popoli indigeni dell’organizzazione stessa – spiegano da Survival – ma si sono rifiutati di farlo, perciò Survival ha ritenuto che non valesse più la pena continuare i negoziati».

Survival ha presentato un’istanza nel 2016 denunciando la creazione di aree di conservazione nelle terre dei Baka avvenuta senza il loro consenso e il costante mancato intervento del WWF nei casi di grave abuso dei diritti umani commessi dai guardaparco che addestra e finanzia. È la prima volta che un’organizzazione per la conservazione è soggetta ad un’istanza secondo le linee guida dell’OCSE. La mediazione che ne è seguita si è tenuta in Svizzera, dove il WWF ha la sua sede principale.

«Il WWF ha giocato un ruolo determinante nella creazione di numerosi parchi nazionali e altre aree protette in Camerun nelle terre dei Baka e di altre tribù della foresta – spiega Survival – La sua stessa politica afferma che qualsiasi progetto di questo tipo deve avere il consenso libero, previo e informato di coloro che ne sono interessati. Un uomo baka ha riferito a Survival nel 2016: “[La squadra anti-bracconaggio] ha picchiato i bambini e anche una donna anziana con i machete. Mia figlia non sta ancora bene. L’hanno fatta accovacciare e l’hanno colpita ovunque – sulla schiena, sul sedere, ovunque, con un machete”. “Mi hanno chiesto di prendere mio padre in spalla. Ho iniziato a camminare, mi hanno picchiato e hanno picchiato mio padre. Per tre ore. Ogni volta che mi lamentavo mi picchiavano, fino a che non sono svenuto e sono caduto a terra” ha raccontato un altro uomo».

La cronistoria

– Survival ha sollevato le proprie preoccupazioni circa i progetti del WWF nelle terre dei Baka per la prima volta nel 1991. Da allora, i Baka e altri popoli locali hanno subito ripetuti arresti e pestaggi, torture e persino morte per mano dei guardaparco finanziati dal WWF.

– L’OCSE è l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico. Pubblica delle Linee Guida sulla responsabilità delle imprese multinazionali, e fornisce un meccanismo di reclamo per i casi in cui le linee guida sono violate.
– L’Istanza è stata presentata presso il Punto di Contatto Nazionale (PCN) svizzero dell’OCSE, dato che il WWF ha la sua sede internazionale in Svizzera. I negoziati hanno avuto luogo nella capitale Berna, tra i rappresentanti del WWF e di Survival.

– Il principio del Consenso Libero, Previo e Informato (CLPI) è il fondamento della legislazione internazionale sui diritti dei popoli indigeni. Ha implicazioni significative per le grandi organizzazioni della conservazione, che spesso operano nelle terre dei popoli indigeni senza essersi assicurate che vi sia il loro consenso.
«Popoli indigeni come i Baka hanno vissuto e gestito i loro ambienti per millenni. Contrariamente a quanto si crede, le loro terre non sono selvagge – aggiunge Survival – Le prove dimostrano che i popoli indigeni sanno prendersi cura dei loro ambienti meglio di chiunque altro. Nonostante ciò, il WWF li ha esclusi dai suoi sforzi di conservazione nel Bacino del Congo. I Baka, come molti popoli indigeni in tutta l’Africa, sono accusati di “bracconaggio” perché cacciano per nutrire le loro famiglie. Gli viene negato l’accesso a vaste porzioni della loro terra ancestrale per cacciare, raccogliere prodotti e svolgere rituali sacri. Molti sono obbligati a vivere in accampamenti improvvisati ai margini delle strade, dove il loro livello di salute è molto basso e dilaga l’alcolismo. Nel frattempo, il WWF ha stretto partnership con imprese del legname come la Rougier, sebbene queste compagnie non abbiano il consenso dei Baka per disboscare la foresta, e il taglio del legno non sia un’attività sostenibile».

«Il risultato di questi negoziati è sconcertante ma non certo sorprendente – ha detto il Direttore generale di Survival International, Stephen Corry – Le organizzazioni per la conservazione dovrebbero assicurarsi che vi sia il ‘consenso libero, previo e informato’ per le terre che vogliono controllare. Questa è stata la politica ufficiale del WWF negli ultimi venti anni. Ma questo consenso non viene mai ottenuto nella pratica, e il WWF non si è voluto impegnare per assicurarlo in futuro nell’ambito del suo lavoro. Adesso è chiaro che il WWF non ha alcuna intenzione di cercare, tanto meno assicurare, il consenso formale delle comunità a cui ruba le terre in collusione con i governi. Dovremo trovare altri modi per spingere il WWF a rispettare la legge, e la sua stessa politica».

Fonte: ilcambiamento.it

Bambini scomparsi: la tragica realtà del traffico d’organi

Un tempo si diceva che il valore di una società si poteva giudicare da come si prendeva cura dei bambini e dei vecchi. Eccolo uno dei modi con cui la nostra società si prende cura dei bambini: tra il 2014 e il 2015 cinquemila bambini scomparsi in Italia.9586-10352

L’Europol nel 2017, anno in corso, grida ai quattro venti che in Europa, tra il 2014 e il 2015, sono scomparsi almeno diecimila bambini immigrati e già registrati dalle autorità statali. Solo in Italia sono scomparsi cinquemila bambini. Lo ripete, perché l’allarme era già stato dato nel 2016. Evidentemente non ha allarmato più di tanto.

Ha detto anche, l’Europol, che la cifra è indicativa “al ribasso”. Una cifra prudente.

Un rapporto dell’ottobre prima delle autorità di Trelleborg, città portuale della Svezia, diceva che mille minori lì giunti il mese precedente erano scomparsi. “Svaniscono” dicono gli svedesi “e non ci sono informazioni su ciò che accade dopo la loro scomparsa”.

Il rapporto Europol parla di probabile sfruttamento, anche sessuale. Non parla di traffico d’organi. Nessuno ne parla. Perché? Dato che solo di ipotesi si parla, e di bambini e adolescenti di cui non resta traccia, perché l’ipotesi dell’espianto di organi non viene nemmeno sfiorata?

Nel trionfo del progresso, dell’informazione e dell’informatica, si vive in una nebulosa e oscura caligine di inconsapevolezza che viene ogni tanto bucata da lampi di luce.

Esattamente come in un temporale notturno, solo alla luce di quel lampo si svela nitido il mondo intorno a noi. Ma è un attimo, e possiamo tranquillamente far finta di averlo sognato.

Nel gennaio 2009 in una conferenza stampa l’allora ministro degli interni Maroni dice: “Abbiamo delle evidenze di traffico di organi di minori scomparsi in Italia”.

Il lampo svegliò di colpo politici e giornalisti e organizzazioni mediche, suscitò un coro di indignazione rivolta perlopiù non al traffico di organi espiantati da ragazzini assassinati ma alle dichiarazioni del ministro.

Perché?

Comunque se ne dovette parlare.

La Repubblica del 31 gennaio 2009 intervistava il magistrato Adelchi d’Ippolito “da qualche mese vicecapo dell’Ufficio Legislativo del ministero dell’economia” e che aveva partecipato ad un’inchiesta sul traffico di organi al tempo in cui era pubblico ministero a Roma: quando i magistrati albanesi, indagando sulla scomparsa di duemila bambini (mai più ritrovati), arrivarono a scoprire che quei bambini erano stati “smistati” tra Italia e Grecia. “Si intuiva che da noi c’erano dei terminali. I miei sospetti mi portarono a lavorare anche sue due cliniche romane. Non ho potuto accertare se fossero davvero coinvolte… perché ho cambiato incarico”.

E ritorna il buio.

Nel 2010 viene reso pubblico il rapporto su un’inchiesta ordinata dal Consiglio d’Europa. Il rapporto dice che Hashim Thaci, primo ministro del Kosovo (e capo dell’UCK, la cosiddetta “armata di liberazione” per la quale l’Occidente ha fatto allegramente il tifo) è a capo di “una rete mafiosa di traffico di organi” .

I trapianti clandestini, in massima parte con eliminazione del “donatore”, erano andati avanti per anni, come per anni è andata avanti la pulizia etnica attuata dall’UCK. Nel solo 1999 erano scomparsi quattrocento tra serbi, rom e albanesi non in linea con le idee e le azioni dell’UCK. C’era la clinica a Pristina, c’era il chirurgo tedesco, c’erano gli intermediari israeliani e turchi… E’ interessante notare come i “pulitori etnici” dell’UCK, che hanno dato fuoco a decine di chiese e monasteri ortodossi, non attuassero nessuna discriminazione di razza o religione verso i loro collaboratori nel traffico di organi.

Oggi Hashim Thaci è presidente della Repubblica del Kosovo.

E ritorna il buio.

Il 21 febbraio del 2004 la missionaria Doraci Judita Edinger viene uccisa a martellate a Nampula, in Mozambico. Assieme alle suore del convento Mater Dei e ad altri religiosi, tra cui padre Claudio Avallone, denunciava da anni le uccisioni di bambini per asportare i loro organi. A Nampula spesso i bambini non sparivano nemmeno. Essendo africani, neri, poveri, selvaggi, in un paese asservito e corrotto, si potevano buttare le loro carcasse svuotate nelle campagne, dentro i fossi. Ma la gente del posto portava i missionari a vedere coi propri occhi i poveri resti, testimoniava a loro ciò che aveva visto. Non alla polizia, dato che la polizia si premurava di perseguitare i testimoni invece degli assassini, e ad archiviare i casi come uccisioni sacrificali, casi di magia nera.

A denunciare gli assassini ci hanno pensato le suore. E la “magia” era tutta bianca. La praticava Gary O’Connor, di origine irlandese e di nazionalità sudafricana, assieme a sua moglie, la danese Tanja Skitte. Nella tenuta di trecento ettari dove ufficialmente allevavano polli ma dove i polli non li ha mai visti nessuno, però tutti potevano vedere la pista per gli aerei che nella tenuta atterravano e decollavano. I loro polli risultano essere in “subappalto” a centinaia di famiglie mozambicane, ma siccome nelle campagne mozambicane ogni famiglia ha qualche pollo, come si fa a controllare? E chissà se i due “magici” allevatori bianchi non hanno anche ricevuto sovvenzioni per gli “aiuti allo sviluppo”?

Dopo la morte della missionaria e le denunce di suore e preti missionari (gli unici che avessero il coraggio e la forza per farle), le recalcitranti autorità mozambicane hanno dovuto fingere di aprire un’inchiesta. Ma, nonostante il procuratore generale Madeira avesse infine dichiarato che “il traffico esiste, è gestito da una rete internazionale… sono stati scoperti bambini sequestrati e tenuti prigionieri nelle città di Nacala e Nampula”, Gary O’Connor e Tanya Skitte sono sempre liberi e… scagionati.

E ritorna il buio. Ci sono inchieste, locali e internazionali, dossier interi di organizzazioni come l’agenzia vaticana Fides o l’UNICEF che raccolgono prove innumerevoli del traffico di organi e della mattanza di giovani e giovanissimi a tale scopo.

Ci sono statistiche ufficiali: nel 2009 la deputata del PDL Procaccini diceva che ogni anno nel mondo 60.000 bambini vengono utilizzati, fruttando un miliardo e mezzo.

Eppure si nasconde, si minimizza, si nega.

Perché?

Perché tutto questo fa parte del nuovo mercato globale. Nel nuovo mercato globale gli interessi di tutti i potentati economici, mafiosi o ufficialmente legali, si intrecciano indissolubilmente. Chi investe in cosa? E chi lo sa.

Allo stesso modo il traffico di organi lega indissolubilmente insieme i criminali dichiarati, a cui spetta il sequestro delle vittime e lo “smaltimento dei rifiuti”, e le persone “perbene”. Chi effettua l’espianto e il trapianto? Fior fior di chirurghi in fior fior di cliniche super attrezzate. Non è in un sottoscala che si fanno i trapianti, non è un macellaio che li fa. Ci sono medici, anestesisti, infermieri. Come il medico tedesco che dirigeva la clinica dell’UCK e lavorava anche in Germania e, probabilmente, ancora ci lavora, dato che non è stato nemmeno indagato. Cosa farà adesso? Dove troverà i pezzi di ricambio?

Ci vogliono complici nelle istituzioni, perché una clinica non può funzionare senza di esse, tantomeno una clinica dove si fanno trapianti.

Tutta questa brava gente risulta incensurata e in qualche caso è potente.

Infine ci sono i ricchi fruitori dei trapianti clandestini. Gente stimata, rispettata, di successo, che può spendere centinaia di migliaia di dollari per il trapianto e che è totalmente priva di scrupoli. Gente in molti casi potente. Gente che fa paura, gente di cui è facile essere complice per chi è potente o servo dei potenti. Ma c’è anche un altro motivo per restare al buio, forse persino più importante. E’ poter continuare a credere che “progresso” voglia dire miglioramento. E’ non dover mettere in discussione totalmente, radicalmente, la società in cui viviamo, la sua economia, la sua cultura. E la sua scienza. Perché il traffico di organi con i suoi orrendi sacrifici umani è il logico e inevitabile sviluppo di una società di dominio, in cui importante è la vita dei dominatori, mentre quella degli oppressi diventa molti tipi di merce: schiavi, prede, pezzi di ricambio.

Di un’economia di dominio in cui il profitto è la divinità, da perseguire a tutti i costi e oltre tutti i limiti.

Di una scienza del dominio al servizio dei grandi poteri economici, in cui lo “scienziato” lotta con le unghie e con i denti per diventare egli stesso sempre più potente, famoso e ricco. Mentre gli “intellettuali”, artisti, scienziati, giornalisti, scrittori, che dovrebbero avere il compito di comprendere e rivelare la realtà, di denunciare gli orrori e indignarsene, sono ridotti a incensatori e giullari del potere; si pavoneggiano alla corte dei potenti, lottano anch’essi con le unghie e coi denti per conquistare uno sgabellino alla loro tavole e nutrirsi degli avanzi. Restano, ahimé, i missionari, preti e suore, a gridare nel buio, inascoltati.

Fonte: ilcambiamento.it

Africa, record di rinoceronti abbattuti: sono 1.300 solo nel 2015

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Il 2015 è stato un anno particolarmente negativo per i rinoceronti in Africa: più di 1.300 animali sono stati uccisi dai bracconieri lo scorso anno, un record di sangue che non si vedeva dal 2008, quando in Sudafrica fu messo al bando il commercio di corni di rinoceronti. Secondo la denuncia dell’International Union for Conservation of Nature (IUCN) il numero di rinoceronti uccisi è salito per il sesto anno consecutivo: buona parte delle uccisioni sono fatte per estirpare il corno spunta sul muso di questi animali e che è composto da cheratina, una proteina filamentosa ricca di zolfo, molto stabile e resistente. In Asia viene contesa a peso d’oro in quanto ai corni di rinoceronte si attribuiscono presunte e taumaturgiche proprietà farmacologiche.

Fonte: ilcambiamento.it

In Africa elefanti e uomini salvati dalle api

L’Ong Silent Heroes Foundation ha lanciato con successo un ingegnoso sistema per evitare i conflitti fra elefanti e uomini nelle aree coltivate dell’Africaapi-8

Su Ecoblog vi abbiamo spesso raccontato di quanto le api siano importanti nell’equilibrio degli ecosistemi e di quali disastri ecologici siano connessi alla loro scomparsa, ma dell’impiego del più operoso degli insetti nella salvaguardia degli elefanti non avevamo ancora parlato. In diversi Paesi africani, infatti, le api vengono utilizzate per ridurre i conflitti fra gli elefanti e gli esseri umani. In Africa la popolazione continua ad aumentare e gli elefanti si trovano sempre di più a contatto con l’attività umana: il loro transito rischia di distruggere le coltivazioni necessarie al sostentamento delle popolazioni che popolano le aree agricole. Per evitare questi passaggi distruttivi gli animali vengono spaventati con colpi di pistola, petardi, lancio di pietre e fruste. Spesso gli animali reagiscono in maniera aggressiva e vi sono vittime da entrambe le parti. In Tanzania un progetto pilota della Ong Silent Heroes Foundation è stato lanciato nella zona del cratere di Ngorongoro, a sud est del Parco Nazionale del Serengeti. Alcuni alveari, collegati fra loro da un filo, sono stati installati su pali e alberi situati nei pressi dei campi coltivati. Se gli elefanti transitano in questi passaggi, lo scotimento del filo è inevitabile e le api arrabbiate pizzicano gli elefanti. Gli esemplari punti dalle api conservano il ricordo della morsicatura e tendono a non voler più transitare da quella via. “Questo approccio olistico, che permette alle comunità di vivere in armonia con gli elefanti e di non stigmatizzarli, può portare alla conservazione della specie, anche se resta ancora da risolvere la crisi per il bracconaggio dell’avorio”,

dice Hayley Adams, veterinaria americana e co-fondatrice della Silent Heroes Foundation. Gli alveari non solo limitano la conflittualità uomo-elefante, ma sono anche una fonte di reddito grazie al miele che viene depositato dalle api. Questa tecnica, sviluppata nel 2008 dalla scienziata britannica Lucy King, viene già utilizzata in paesi africani come Kenya, Botswana, Uganda e Mozambico. La ricerca – vincitrice del premio Unep del 2011 – aveva dimostrato che il 90% degli elefanti fugge quando sente il ronzio delle api.

Fonte:  Le Monde

Foto | Mazzocco

Acqua “privata” in Africa: la lotta della Nigeria contro la Banca Mondiale

Il nuovo colonialismo in Africa non sta solo derubando il continente delle terre, si sta anche impadronendo delle risorse primarie, tra cui l’acqua. I fondi della Banca Mondiale sono legati a doppio filo alle privatizzazioni e molti governi ormai, corrotti o con il cappio al collo, condannano le popolazioni a una nuova schiavitù.acqua_africa

Non bastavano il Mali, il Sud Africa (6 Corporation hanno contratti), il Ghana (dove dopo la privatizzazione il costo dell’acqua è aumentato del 95% e un terzo della popolazione non ha accesso ad acqua pulita), la Namibia. Ora la Banca Mondiale preme sulla Nigeria per permettere a una partnership pubblico-privata di mantenere e ampliare la gestione dell’erogazione dell’acqua aumentandone i costi. Ma la popolazione si sta opponendo con tutte le sue forze. La capitale Lagos, che conta 21 milioni di abitanti, è il “boccone” che le Corporations si sono servite in tavola e bramano il resto della preda. «Da decenni la Banca Mondiale sta facendo di tutto per impedire lo sviluppo di un sistema pubblico di gestione – spiega Akinbode Oluwafemi, responsabile per i diritti ambientali di Friends of the Earth Nigeria – tanto che oggi nove persone su dieci non hanno accesso ad acqua potabile. Sappiamo bene quali interessi si nascondono dietro la trasformazione dell’acqua in un bene di mercato. Nel mio villaggio ho realizzato una pompa che permette ai vicini di avere libero accesso a questa preziosa risorsa e per questo ho ricevuto minacce dalle società che invece l’acqua la vogliono vendere a peso d’oro, poiché stavo mettendo a rischio i loro profitti. Ma non farò retromarcia. La Banca Mondiale ora sta tentando di convincere le comunità anche al di fuori della capitale che la privatizzazione dell’acqua è la risposta ai problemi della gente, se ne infischia dei processi democratici. Abbiamo ospitato a Lagos in questi giorni attivisti ed esperti per il Lagos Water Summit, co-promosso insieme a Corporate Accountability International. Ma abbiamo bisogno di far sentire la nostra voce anche oltre confine, anche nel resto del mondo. Abbiamo bisogno dell’aiuto di tutti, per questo chiediamo ad ogni cittadini in ogni nazione di scrivere alla Banca Mondiale sollecitando lo stop al processo di privatizzazione (qui trovate la lettera da mandare e le istruzioni). Il nostro movimento vuole crescere nei prossimo mesi, ma abbiamo bisogno che il nostro problema diventi il problema di tutti». E Akinbode Oluwafemi sa bene come sia in corso non solo in Africa (con effetti assolutamente devastanti), ma anche negli altri paesi del mondo il processo di privatizzazione dell’acqua. In Italia la situazione non è affatto migliore. «C’è un preciso piano attraverso il quale il Governo intende rilanciare con forza il processo di privatizzazione e finanziarizzazione dei beni comuni ma ciò avviene in maniera molto più subdola degli anni passati – ha spiegato Paolo Carsetti, del Forum italiano dei Movimenti per l’acqua–  Tutti i provvedimenti elencati non esplicitano un attacco diretto all’acqua o ai servizi pubblici locali come fatto nel 2009 dal governo Berlusconi, l’attacco è strisciante, non si pronuncia la parola privatizzazione perchè è un tema su cui si è già registrato una sconfitta epocale ma la sostanza è la stessa. Il governo si muove dietro la propaganda che prova a descrivere uno scenario come quello della necessità di riduzione della spesa pubblica anche attraverso la razionalizzazione delle cosiddette partecipate o ex municipalizzate che sarebbero coacervo di sprechi, clientele e malapolitica. È la retorica che sta dietro a questa propaganda, con la quale si prova a raggiungere il medesimo obiettivo del governo Berlusconi: cedere al mercato la gestione dei servizi pubblici e dei beni connessi». «L’acqua è un bene comune e tale deve rimanere – aggiunge Shayda Naficy, direttore della Campagna Internazionale per l’Acqua di Corporate Accountability International (CAI) – quando se ne impadroniscono i privati, ecco che nascono fortissime disparità nell’accesso e nei costi».  Eppure, malgrado la Banca Mondiale continui a premere per la privatizzazione dell’acqua soprattutto nei paesi del Terzo Mondo, i dati rivelano che un’eleveta percentuale dei suoi progetto è in condizioni di stress. Il database dell’ente internazionale documenta un 34% di fallimenti. Nel 2013 il CAI ha inviato una lettera aperta alla Banca Mondiale per chiedere lo stop al sostegno dato ai progetti di privatizzazione, ma nulla è cambiato. Ma come si può dimenticare che l’accesso e il diritto all’acqua pulita sono la base della vita stessa?

Fonte: ilcambiamento.it

Avorio, il massacro degli elefanti continua

In tanti confidano nel ricordo di una convenzione internazionale, vecchia di ormai 26 anni, che nel 1989 ha bandito il commercio internazionale di avorio? Eppure i gioielli in avorio sono ancora reperibili e gli elefanti continuano ad essere massacrati al ritmo di 1 ogni quarto d’ora in Africa.vignettaelefanti

Nell’Africa centrale dal 2002 ad oggi il numero degli elefanti è diminuito del 76% e dal 1989, cioè dall’accordo che bandì il commercio internazionale dell’avorio, sono state fatte deroghe e ci si è accorti che i controlli non sempre sono efficienti. Non è solo colpa del bracconaggio se in Africa viene ucciso un elefante ogni 15 minuti, benchè i bracconieri abbiano le loro pesanti colpe (basti pensare che negli ultimi otto anni il commercio illegale di avorio è raddoppiato). Lo si è visto già dopo pochi anni che il bando del 1989 non bastava a preservare dall’estinzione gli elefanti, uccisi per le zanne e quindi per l’avorio. Sulla rivista Conservation Biology è stato detto chiaramente che, se si vuole conservare quanto resta degli esemplari selvatici di elefanti nelle nazioni dell’Africa, tutti i mercati d’avorio internazionali e locali devono essere chiusi. Inoltre, scorte governative di avorio, attualmente sparse per il mondo, devono essere distrutte, dal momento che sono note fonti di immissione sul mercato nero di avorio illegale. Secondo l’autore della ricerca, la corruzione mina tutti gli aspetti dei controlli lungo la catena distributiva del mercato legale di avorio. Un caso emblematico fu raccontato dai media americani nel 2012. In una gioielleria di Manhattan fu scoperta una tonnellata di avorio illegale; era tutto quanto rimaneva di cento elefanti che erano stati massacrati. Pensate a cosa si potrebbe scovare setacciando tutta New York oppure una grande metropoli italiana. Di questo passo nel giro di pochi anni gli elefanti saranno solo immagini sui libri da mostrare ai nipoti, né più né meno, come i dinosauri. Nel febbraio dell’anno scorso negli Stati Uniti il presidente Obama annunciò progetti per imporre il divieto totale della commercializzazione di avorio eppure…La regolamentazione della vendita non è stata mai realmente introdotta a causa di ritardi amministrativi. Avrà giocato un ruolo la pressione della National Rifle Association, che ha strenuamente combattuto il divieto e ha sollecitato il Congresso ad alleggerire anche le norme già in vigore? L’accordo del 1989 permetteva di continuare a commercializzare l’avorio ottenuto da elefanti massacrati prima di quell’anno; il problema è che si fatica a datare l’avorio, a meno che non si utilizzino test molto costosi! E c’è chi continua a procurarselo spacciandolo magari per vecchio di oltre 26 anni. Perché sennò i bracconieri nel solo 2002 avrebbero ucciso 35.000 elefanti? Secondo William Woody, dirigente del Fish and Wildlife Service americani, spesso i documenti vengono falsificati e le sanzioni legali non servono come deterrente. L’Asia è il primo mercato dell’avorio, gli Stati Uniti il secondo, con epicentro a New York, California e Hawaii. A gennaio l’Unione Europea ha approvato una risoluzione che raccomanda agli Stati membri di prevedere una moratoria di tutti i commerci e le vendite di avorio. La Francia l’anno scorso ha distrutto le sue scorte. Eppure negli ultimi dieci anni i massacri di elefanti sono di nuovo aumentati fino a livelli pressochè irreparabili. Quindi, o il divieto diventa assoluto e da subito oppure presto non ci sarà più niente da fare.

Fonte: ilcambiamento.it

Ma veramente chi rifiuta gli ogm condanna l’Africa alla fame?

Secondo l’ex ministro dell’ambiente britannico, Owen Paterson, chi si oppone alla diffusione degli ogm condanna l’Africa alla fame. E, parlando a Pretoria, ha definito le fondate e documentate critiche mosse da scienziati e capi di Stato «un fanatico antagonismo al progresso e alla scienza». Ma chi è il vero fanatico? E qual è la vera scienza?ogmmais

Le parole pronunciate a Pretoria, in Sud Africa, da Paterson sono destinate a sollevare polemiche, ma intanto è l’ennesima espressione di una lobby che preme su più fronti senza mollare mai. Secondo Paterson la “food revolution” africana deve essere basata sugli ogm, che nutriranno il continente e che ha addirittura definito protagonisti della green revolution. Scienziati e governi che cercano di mettere un freno all’imperversare degli ogm, i cui rischi per la salute e l’ambiente peraltro sono già documentati, vengono definiti dall’ex ministro britannico come coloro che «voltano la schiena al progresso» e che «con le loro politiche condannano miliardi di persone alla povertà, alla fame e al sottosviluppo». Quindi sarebbero contro il progresso le parole del primo ministro russo Dmitry Medvedev, secondo cui «possiamo nutrirci con prodotti normali, comuni, non geneticamente modificati»? Medvedev ha aggiunto: «Se gli americani vogliono mangiare quei prodotti, che facciano. Noi non ne abbiamo bisogno, abbiamo sufficiente spazio e opportunità per produrre cibo biologico». Paterson dovrebbe anche leggere il documento stilato da 24 delegati di 18 Stati africani inviato all’Onu nel 1998: «Ci opponiamo fermamente al fatto che l’immagine della povertà e della fame nei nostri paesi siano usate dalle grandi multinazionali per spingere tecnologie che non sono sicure, né compatibili con l’ambiente né economicamente vantaggiose per noi. Non crediamo che queste multinazionali o le tecnologie genetiche aiuteranno i nostri agricoltori a produrre il cibo necessario per il ventunesimo secolo. Al contrario, pensiamo che distruggeranno la biodiversità, le conoscenze locali e il sistema dell’agricoltura sostenibile che i nostri contadini hanno sviluppato in migliaia di anni; questo metterà a repentaglio la nostra capacità di nutrirci». Paterson dovrebbe anche informarsi su cosa ha dettoViva Kermani quando ha parlato della situazione dell’India: «E’ irresponsabile affermare che nel nostro paese migliaia di persone muoiono ogni giorno di fame e che gli ogm sono la soluzione. Quando la nostra gente ha fame o è malnutrita, non è per mancanza di cibo ma perché il loro diritto alla sicurezza e al cibo nutriente viene negato». L’ex ministro britannico, e tanti altri come lui, pare proprio bravo nell’utilizzare la retorica per smuovere sentimenti ed emozioni, ma questo non ha nulla a che fare col progresso e la scienza e non fa che sviare l’attenzione dalle vere cause della fame e della povertà. I sostenitori degli ogm ripetono costantemente che questa tecnologia risolverà il problema della fame e nutrirà la popolazione mondiale. Le lobby del biotech ci ripetono che gli ogm sono essenziali, che permettono ai contadini di affrontare meglio i cambiamenti climatici, che hanno più resa. Ma la falsità di tutto ciò è stato ormai ampiamente dimostrato. Prendiamo per esempio il rapporto che lo scorso anno è stato pubblicato dal Canadian Biotechnology Action Network (CBAN), secondo cui la fame è causata dalla povertà e dalla diseguaglianza e che già si produce abbastanza cibo per tutti ed era così anche nel 2008, ai tempi del picco della crisi alimentare mondiale. Secondo il rapporto, l’attuale produzione alimentare mondiale fornisce abbastanza cibo per nutrire dieci miliardi di persone e le crisi dei prezzi non dipendono dalla scarsità di alimenti. Inoltre, il CBAN fa notare come gli ogm oggi sul mercato non siano affatto finalizzati a risolvere il problema della fame nel mondo. Quattro cereali ogm coprono la quasi totalità dei terreni nel mondo coltivati con questi alimenti modificati e tutti e quattro sono stati sviluppati per l’agrindustria su larga scala, soprattutto utilizzati per produrre carburanti, per il cibo industriale e per i mangimi degli animali. Il rapporto canadese chiarisce anche che gli ogm non hanno aumentato i raccolti né gli introiti degli agricoltori, portano ad un aumento nell’uso di pesticidi e provocano danni all’ambiente. In India dove si coltiva il cotone Bt non è diminuito l’uso di pesticidi. Paterson parla di pratiche agricole anacronistiche e primitive che affamano milioni di persone e distruggono l’ecologia, ma ciò che dice non ha il minimo fondamento nella realtà, sta solo giocando con la paura e le emozioni. Moltissimi documenti ufficiali sostengono he per risolvere il problema della fame nelle regioni povere occorre supportare metodi agro-ecologici e sostenibili, rafforzando le economia alimentari locali. Si veda qui per il rapporto dell’Onu, qui per un altro documento ufficiale,qui per l’Onu Special Rapporteur sul diritto al cibo, qui per il documento di 400 esperti. Si veda anche questo documento che attesta come gli ogm non siano necessari per nutrire la popolazione mondiale. Quindi…Paterson da dove ha preso le informazioni sulle quali ha basato le sue dichiarazioni? Beh, si può intuire la risposta. L’esperienza con gli ogm dimostra che in questo modo la sicurezza alimentare è messa in pericolo e che si creano problemi ambientali, sociali ed economici (si veda questo rapporto di GRAIN e questo articolo di Helena Paul che documenta l’ecocidio e il genocidio in Sud America a causa dell’imposizione delle colture ogm). Ma tutto sommato non deve sorprendere che Paterson dica certe cose. Come ministro dell’ambiente ha favorito le partnership con enti pro-ogm, come l’Agricultural Biotechnology Council (ABC), che è sostenuta da multinazionali quali Monsanto, Syngenta and Bayer CropScience. E…secondo voi chi sostiene ciò che anche Paterson sostiene lo fa in buona fede? Senza conflitto di interesse? E la retorica dell’evidenza scientifica  che contraddice ciò che gli ogm in realtà hanno mostrato di causare? Leggete qui, quello che scrive Global Research. E anche in Italia non mancano certe uscite. In realtà sono la speculazione e il modello del business industriale a portare alla fame, alla povertà, al land grabbing, alla scomparsa delle aziende agricole familiari in nome degli interessi delle grandi multinazionali. Daniel Maingi lavora con i piccoli agricoltori in Kenya e appartiene all’organizzazione Growth Partners for Africa. Maingi è nato in una fattoria nel Kenya orientale e ha studiato agronomia. Si ricorda bene di quando la sua famiglia coltivava e mangiava una grande varietà di cereali, legumi e frutti. Dopo lo Structural Adjustment Programmes negli anni ’80 e ’90 e la cosiddetta green revolution, tutto è stato sostituito dal mais, solo e sempre mais. E la gente ha cominciato a mangiare solo mais, cereale peraltro che ha bisogno di acqua, cosa che in Africa rappresenta un problema, e ha portato a un uso massiccio di fertilizzanti che hanno ucciso l’importantissima flora batterica del terreno. Growth Partners Africa lavora con i contadini per nutrire il terreno con sostanze organiche naturali, per usare meno acqua e aumentare la varietà. Per Maingi la sovranità alimentare in Africa significa tornare all’agricoltura e all’alimentazione che c’erano prima dei massicci investimenti occidentali. Mariam Mayet dell’African Centre for Biosafety in Sud Africa spiega come molte nazioni stiano finanziando gli agricoltori affinchè comprino fertilizzanti, aderiscano al modello di agricoltura industriale e diventino dipendenti dalle multinazionali per le sementi. Elizabeth Mpofu, di Via Campesina, coltiva un’ampia varietà di cereali in Zimbabwe. Durante una recente siccità, i vicini che usavano fertilizzanti chimici hanno perso gran parte del raccolto. Lei invece ha raccolto sorgo, grano e miglio coltivati con i metodi agro-ecologici: controllo naturale dei parassiti, fertilizzanti organici e cereali adatti all’ambiente. Daniel Maingi accusa inoltre di condotte fuorvianti e sbagliate la Banca Mondiale, il fondo monetario internazionale e la Gates Foundation che ha rapporti strettissimi con l’Alliance for a Green Revolution in Africa (AGRA)  . Le multinazionali dell’agritech continuano a ripetere che hanno la risposta alla fame e alla povertà, in realtà hanno già fatto fin troppi danni.

Si ringrazia Colin Todhunter per Countercurrents

Fonte: ilcambiamento.it

 

In manette trafficante di corni di rinoceronte a Francoforte, la refurtiva vale 1 milione di dollari

Un corno di rinoceronte vale al mercato nero circa 500 mila dollari, ovvero più dell’oro e del platino e con questo bottino è stato arrestato all’aeroporto di Francoforte un trafficante internazionale in procinto di venderne due

E’ stato arrestato all’aeroporto di Francoforte un trafficante di corni di rinoceronte in procinto di piazzare la preziosa merce sul mercato nero. Ogni corno viene pagato circa 66 mila euro al chilo e un corno integro può arrivare al valore di 500 mila euro. L’arresto è avvenuto grazie alla rete di monitoraggio internazionale TRAFFIC del WWF. L’aeroporto di Francoforte è un hub importante, crocevia dei voli in arrivo e in partenza per Africa e Asia e spesso è usato come snodo per i traffici illeciti. Infatti i due corni sequestrati erano appena stati portati dall’Africa. I trafficanti sono stati notati dalla polizia dello scalo, ma non è detto che tali illeciti siano sempre smascherati.UK Border Force Crack Down On Trade OF Endangered Species

Sottolinea il WWF:

Le indagini continuano ma quello su cui oggi è necessario intervenire decisamente e con ogni mezzo è interrompere il falso messaggio culturale delle potenzialità medicamentose della polvere di corno e del valore simbolico che questo oggetto, trasformato in una coppa, assume per cerimonie o riti ancestrali.

Infatti la credenza che vuole che il corno di rinoceronte abbia poteri taumaturgici, ossia di guarigione per molte malattie o disturbi della sfera sessuale, resta dura a morire e ciò comporta che si stia avendo una decisa escalation di stragi di rinoceronti, ma anche di tigri (catturate per la loro pelliccia) o di elefanti (per i denti in avorio).

Riferisce il WWF nel dossier “Natura Connection” che:

circa il 94% del bracconaggio di rinoceronti avviene tra Zimbabwe e Sud Africa dove oggi sopravvive la più grande popolazione di rinoceronti in Africa. Mentre nel 2007 sono stati documentati meno di 50 casi, nel solo 2013 ne sono stati uccisi più di 1.000. Il solo Sud Africa ( che ospita la più grande popolazione di rinoceronti del pianeta) ha registrato dal 2007 ad oggi un aumento del 7000% del bracconaggio ai danni dei rinoceronti.

Per approfondimenti: Crimini di natura la campagna del WWF

Ebola su Lancet: l’epidemia non si è voluta evitare

L’emergenza Ebola in Africa si sarebbe potuta evitare se i governi e le istituzioni sanitarie avessero agito seguendo le raccomandazioni che l’Organizzazione Mondiale della Sanità aveva fornito anni addietro. Risposte frammentarie e in ritardo, sistemi sanitari allo sfascio, mancanza di mezzi hanno trasformato qualcosa di contenibile e gestibile in un problema di salute pubblica. E’ questa la sentenza, senza appello, del professor Lawrence Gostin, dello O’Neill Institute for National and Global Health Law di Georgetown, Washington.ospedale_liberia_ebola

Per chi avesse avuto qualche residuale dubbio, anche dopo la lettura dei precedenti articoli che abbiamo dedicato all’argomento (“Ebola, il nuovo incubo (l’ennesimo” e “Non preoccupatevi di Ebola (e iniziate a preoccuparvi di cosa significa)“, arriva un’altra presa di posizione, stavolta pubblicata sulla rivista scientifica The Lancet. Lawrence Gostin, dello O’Neill Institute for National and Global Health Law di Georgetown (Washington), interviene affermando che “la risposta internazionale nell’Africa occidentale all’attuale epidemia di Ebola è stata frammentaria ed è giunta in ritardo”. E aggiunge: “Gli ospedali dei paesi colpiti sono diventati luogo di amplificazione della trasmissione della malattia poiché sono privi di sistemi di controllo rigorosi e non hanno modo di isolare i malati in maniera sterile e sicura. Di conseguenza, i pazienti terrorizzati hanno evitato gli ospedali diffondendo l’infezione nella comunità, costituita da miriadi di individui già provati da innumerevoli altre patologie, dalla malaria alle malattie croniche”.

“Anche gli operatori sanitari in quei paesi avevano e hanno paura e spesso si rifiutavano e si rifiutano di visitare i malati e di raccogliere campioni di sangue e urine. Le infrastrutture sanitarie necessarie a prevenire la malattia e a contenerla nello stadio iniziale restano fuori dalla portata dei più poveri. Gli Stati colpiti non hanno strutture adeguate, né laboratori, né sistemi di sanità pubblica e personale clinico preparato; non hanno strumentazioni per tenere sotto controllo le infezioni né protocolli da seguire; non formano gli operatori, non hanno attrezzatura ad alta biosicurezza né unità di isolamento, né tanto meno sistemi di comunicazione che possano diffondere le informazioni tra la gente. Tali paesi spesso organizzano cordoni militari per separare ampi segmenti di popolazione impedendo però in questo modo l’accesso al cibo, all’acqua pulita e alle cure. Tutto ciò vìola le norme internazionali di salute del 2005 che prescrivono alle nazioni di dotarsi di sistemi capaci di individuare le emergenze sanitarie e rispondere ad esse”.

Poi un passaggio altrettanto importante dell’intervento di Gostin: “La risposta non sta in farmaci non testati, quarantene di massa o aiuti umanitari”. La risposta sta nel dotare di strutture e sistemi adeguati i paesi più fragili, eliminando le carenze strutturali. Sei mesi dopo la diffusione del virus i piani di rafforzamento strutturale dei paesi africani sono stati ulteriormente posticipati, mentre 490 milioni di dollari sono stati destinati ad affrontare l’emergenza epidemica, ma così facendo, continuando a non dotare chi ne ha bisogno di ciò che sarebbe utile per fermare il virus, ci saranno persone che continueranno ad ammalarsi e altri soldi, in un circolo vizioso senza fine, saranno spesi per rincorrere l’emergenza.

Fonte: ilcambiamento.it

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