Grazie all’operazione “Mare Caldo”, Greenpeace Italia ha effettuato una serie di rilevamenti e misurato le temperature nel Mar Tirreno. In questo comunicato vengono descritte le conclusioni dello studio, tutt’altro che confortanti. Siamo tornati nelle acque dell’Isola d’Elba con la barca Bamboo della Fondazione Exodus di don Mazzi per la spedizione di ricerca “Difendiamo il Mare”: proprio qui, nel novembre scorso, avevamo posizionato, insieme all’Università di Genova, una stazione pilota per misurare le variazioni delle temperature del mare a diverse profondità. In poche parole, termometri per misurare la febbre del mare. Oggi pubblichiamo i primi risultati di questo progetto, che abbiamo chiamato “Mare Caldo” e la foto che scattiamo è preoccupante: sia dai termometri installati lo scorso inverno in mare a varie profondità, sia dalle osservazioni preliminari fatte durante i monitoraggi sugli ecosistemi marini a fine giugno, emergono chiaramente i segnali degli impatti dei cambiamenti climatici sui nostri mari. I primi dati registrati dai nostri termometri posizionati fino a 40 metri di profondità indicano, oltre a un aumento repentino delle temperature a inizio giugno che attorno ai 35 metri di profondità sono arrivate fino a 20°C, anche un aumento delle temperature invernali, con una temperatura media minima tra dicembre e marzo di 15°C, di ben un grado più alta delle medie registrate in superficie fino al 2006.
Foto di Greenpeace
Questo riscaldamento delle acque favorisce lo spostamento verso nord di tutte le specie termofile, cioè quegli organismi che normalmente vivono e si riproducono a temperature più elevate, fatto che è confermato da quanto osservato durante le nostre immersioni, abbiamo potuto rilevare la presenza di pesci normalmente abbondanti in aree più calde del Mediterraneo, come la donzella pavonina (Thalassoma pavo) o alcune specie di stelle marine (Hacelia attenuata) o specie considerate “aliene” come l’alga verde Caulerpa cylindracea, originaria delle coste occidentali dell’Australia.
Con le ricercatrici del DiSTAV dell’Università di Genova ci siamo immersi in vari punti intorno all’Isola d’Elba e all’Isola di Pianosa per monitorare gli impatti dell’aumento delle temperature del mare sugli organismi marini. Quello che abbiamo osservato è preoccupante, specie simbolo dei nostri fondali come la gorgonia gialla (Eunicella cavolini) e la gorgonia bianca (Eunicella singularis) presentano evidenti fenomeni di necrosi, con morie che in alcune aree arrivano fino al 50% delle colonie. Nel caso delle gorgonie rosse (Paramuricea clavata) il 10% circa di quelle osservate è risultata impattata, e la maggior parte delle colonie sono state trovate ricoperte da mucillagine. È proprio questo che preoccupa. Nei siti di immersione monitorati abbiamo registrato una copertura quasi totale dei fondali tra i 10 e i 30 metri da parte della mucillagine, fenomeno in parte correlato proprio all’aumento delle temperature e che provoca la morte degli organismi marini per soffocamento aggravando la situazione. Durante le immersioni abbiamo visto anche altri chiari impatti delle anomalie termiche pregresse, come lo sbiancamento o la morte di alcuni coralli (la madrepora a cuscino – Cladocora caespitosa, e alcune alghe corallineacee), nonché la morte di numerosi individui di nacchere di mare o Pinna nobilis, (specie ultimamente decimata proprio da malattie la cui diffusione è favorita dall’aumento delle temperature). Ma se alcuni di questi segnali si osservano anche a Pianosa, in generale la situazione su quest’Isola che è un’ area totalmente protetta è ben diversa: qui l’assenza di invasioni di campo da parte dell’uomo ha favorito il mantenimento di vere e proprie foreste algali, habitat ormai rari in quasi tutto il Mediterraneo e il proliferare della biodiversità – abbiamo incontrato tantissime specie di pesci, e si ha molto meno traccia della mucillagine, chiaro segnale che, laddove il mare è totalmente protetto, le specie hanno una maggiore resilienza a un cambiamento che è già in atto. Che fare per difendere il mare da questo destino “scottante”? Inutile girarci intorno: da un lato servono politiche urgenti per tagliare le emissioni di gas serra e fermare l’aumento delle temperature e dall’altro dobbiamo tutelare le aree più sensibili. I cambiamenti climatici sono solo l’ultimo tassello, che aggrava la crisi di un ecosistema già al collasso per via dell’inquinamento da plastica e della pesca distruttiva. Se l’Italia è seria rispetto all’impegno di tutelare un 30% dei propri mari entro il 2030, dovrà mettere in atto meccanismi precisi per fermare da un lato le attività più distruttive e inquinanti e dall’altro rafforzare la rete già esistente di aree protette. Fonte: https://www.italiachecambia.org/2020/07/rilevamenti-cambiamenti-climatici-tirreno/?utm_source=newsletter&utm_medium=email
Di inquinamento da PFAS in Veneto si è iniziato a
parlare nel 2013, quando è scoppiata quell’emergenza che ha ora oltrepassato I
confini della “zona rossa” ed è stata dichiarata nazionale. Eppure sappiamo
oggi che il più grave inquinamento delle acque della storia italiana ha avuto
origine anni prima a causa di una pericolosa gestione del territorio che ha
determinato negli anni contaminazioni e reazioni a catena. Tra queste la
mobilitazione di mamme, cittadini e associazioni che lottano nel tentativo di
limitare le conseguenze ambientali e sanitario di questo “veleno invisibile”.
Eppure, oggi più che mai, la via d’uscita da questo disastro appare lontana. I PFAS sono composti chimici industriali
utilizzati per rendere i prodotti impermeabili all’acqua e ai grassi. Sono
usati nella produzione di molti oggetti di uso quotidiano come padelle di
teflon, carta da forno sbiancata, packaging per fast food, abbigliamento reso
impermeabile o isolante e lubrificanti. Da almeno 60 anni queste sostanze si
diffondono e avvelenano le falde acquifere, acque superficiali e acquedotti del
Veneto occidentale ma ormai sono diffusi nel fiume Po e quindi anche nel mare
Adriatico. L’Ispra ha stimato per il solo danno ambientale 136,8 milioni di
euro. Per il secondo anno il Consiglio dei Ministri ha dichiarato lo stato
di emergenza da contaminazione delle falde idriche di Verona, Vicenza e
Padova. Man mano che la regione Veneto aggiorna i dati, aumentano i comuni
contaminati oltre a quelli già presenti nella zona “rossa” attorno a Trissino
dove ha sede l’incriminata azienda Miteni Spa. A sempre più persone vengono
riscontrati valori elevati nel sangue di PFAS e si allargano gli screening anche alla
popolazione pediatrica. Queste sostanze rappresentano un grave pericolo sia per la salute
umana che per l’ambiente, sono catalogate nelle liste internazionali di
sostanze estremamente preoccupanti (SVHC) perché tossiche, persistenti e
bio-accumulabili cioè il nostro corpo le integra e le accumula; esse sono
particolarmente subdole perché inodori, incolori e insapori.
La gestione del
caso Miteni
La Miteni Spa,
un’azienda chimica specializzata in produzione di intermedi fluorurati per
agrochimica, farmaceutica e chimica fine, dal 1977 ha scaricato sostanze
altamente tossiche nei corsi d’acqua ma l’inquinamento da tali sostanze è stato
constatato solo nel 2013. Questo evento ha portato alla luce un intero sistema
di pericolosa gestione del territorio. Il 20 marzo di quest’anno i
carabinieri del NOA (Nucleo Operativo Ecologico) in 270 pagine certificano, con
13 rinvii a giudizio tra i dirigenti aziendali, che la Provincia di Vicenza ha
nascosto l’inquinamento per 13 anni: “C’è stata la volontà di non far
emergere la situazione, colpevole anche l’Agenzia Ambientale regionale,
l’organo di controllo, Arpav”.
L’attività
industriale
Le attività
industriali che usano questi prodotti sono quelle per la lavorazione delle
pelli, del tessile, le cartiere e le produzioni con inchiostri e tinture. Le industrie
rilasciano questi composti come fanghi, scarichi e contaminanti del suolo. Ma
sono soprattutto le concerie le industrie incriminate. L’ltalia rappresenta il
66% della produzione conciaria europea, il Veneto il 52% della produzione italiana
del settore. Ne consegue che la sola industria della pelle del Veneto consuma
ogni anno, secondo i dati dell’agenzia europea ECHA che disciplina l’uso delle sostanze chimiche,
circa 160 tonnellate di sostanze che rilasciano PFOA e che non sono mai state
oggetto di analisi negli scarichi industriali perché precursori dei PFAS. A
questi vanno ad aggiungersi 30 tonnellate di PFOA e sali di PFOA puri o
utilizzati in miscele vendute in Europa. In Italia la chiusura delle indagini
preliminari della procura di Vicenza sull’azienda Miteni ha sollevato gravi
responsabilità di Istituzioni Pubbliche ed enti di controllo per il più
grave inquinamento delle acque della storia italiana con interessamento,
per ora, di 350 mila persone e più di 90.000 abitanti da sottoporre a controllo
clinico. Già dal 2010 la Provincia di Vicenza era a conoscenza dell’incremento
della contaminazione da PFAS dovuta alla Miteni e così l’Arpav Veneto, l’organo
di controllo.
La diffusione dei
PFAS si sarebbe potuta arginare 10 anni fa.
Eppure la regione
Veneto si è inserita nel fallimento della Miteni per essere risarcita di 4,8
milioni di euro. Inoltre il Ministero delle politiche economiche ha messo a
disposizione fondi al Commissario Delegato, Nicola Dell’Acqua, per una quota
complessiva di 56,8 milioni con il compito di iniziare, e portare avanti, gli
interventi urgenti. Ulteriori 80 milioni saranno stanziati dal Ministero dopo
un un Accordo di programma da sottoscrivere con la Regione Veneto. Quindi l’onere
della bonifica è a carico dello Stato ma gestita dalla Regione.
Contaminazioni a
catena
L’acqua è la base
di ogni forma di vita e si distribuisce in ogni parte dell’ecosistema. Oltre
che nei rubinetti dell’acqua potabile i PFAS sono entrati nella catena
alimentare, nell’agricoltura, negli allevamenti e nella pesca. Infatti l’acqua
è responsabile solo per il 20% della contaminazione, il restante 80% è dovuto
agli inquinanti presenti nella catena alimentare e nell’aria (EFSA, 2017). Nessuna
iniziativa, fino ad ora, è stata adottata nei confronti dell’origine alimentare
della contaminazione. Infatti le Istituzioni hanno diffuso segnali rassicuranti
basandosi su parametri dose/giornaliera vecchi di 10 anni quando ancora gli studi
sull’impatto della contaminazione erano appena cominciati. Mentre in
America già molte persone sono state risarcite per avvelenamento da PFAS, in
Italia si attendono le prove causa-effetto non bastando il “probabile
collegamento” che già emerge dagli studi epidemiologici. Dagli studi del Prof.
Carlo Foresta dell’Università di Padova, endocrinologo e andrologo si prospetta
una crescita esponenziale di infertilità nelle future generazioni,
soprattutto maschile. Infatti i PFAS, interferenti endocrini, per la loro
natura chimica si sostituiscono all’ormone testosterone nei tessuti dove questo
dovrebbe agire. Questo determina grave insufficienza del sistema riproduttivo
ma anche problematiche ormonali a lungo termine.
I valori guida di
riferimento
Leggiamo dal documento/inchiesta pubblicato dal Comitato di Redazione PFAS.land che la
pubblicazione dei nuovi valori guida per la salute umana indicati
dall’EFSA(organo di controllo europeo) è per ora stata sospesa per la pressione
delle lobbies chimiche sulle Istituzioni Europee. Ma sono state pubblicate
dalla rivista del Sindacato veterinari di medicina pubblica del Veneto: per
PFOS e PFOA sono rispettivamente di 13 ng/kg e 6 ng/kg peso corporeo per
settimana. Emergerebbe una enorme discrepanza con i dati di riferimento
della regione attualmente in atto per le valutazioni: in totale un litro
d’acqua, definita potabile, può contenere fino a 390 ng di PFAS. Ad esempio un
bambino di 10kg supererebbe la soglia giornaliera solo bevendo un litro di
acqua. Su tali parametri sono basati anche i pochi monitoraggi dell’istituto
Superiore di Sanità sugli alimenti vegetali e animali. Questo è uno dei punti
chiave che necessita di misure urgenti poiché nessuno è in grado di stimare
l’entità delle contaminazioni e il nesso dose/rischio per la salute sia degli
abitanti della zona sia di quelli delle altre regioni dove i prodotti vengono
distribuiti. Per ora la regione Veneto ha emesso un’ordinanza che vieta fino al
30 giugno il consumo del pesce pescato proveniente dalle aree dove sono
state riscontrate positività analitiche per i PFAS. Ma non c’è nessun
controllo, non emerge la capacità di gestire la situazione neanche di saperla
valutare.
Campi del Veneto
visti dall’aereo
Le economie di zona
Storicamente la
ricchezza della Regione deriva proprio dall’opera di regimentazione delle acque
attraverso le bonifiche delle paludi che permisero ad una delle zone più povere
d’Italia il grandioso sviluppo economico prima agricolo e poi industriale.
Dagli anni ’60 lo sviluppo industriale di questo territorio ha avuto una forte
connotazione chimica. Gli impianti di Marghera della Monsanto e della Sicedison
hanno posto le basi per diventare uno dei più importanti poli per la produzione
di materie plastiche in Europa. Poi si insediò la Rimar, che in seguito
diventa appunto Miteni, costruita sulla seconda falda acquifera più grande
d’Europa, grande come il Lago di Garda. La zona di Arzignano rappresenta il più
grande polo europeo della concia che scarica nella zona migliaia di
tonnellate di rifiuti tossici arrivando ormai alla nona discarica e con
nessun intervento da parte delle autorità di controllo. Reflui conciari e
reflui della Miteni viaggiano vicini, vengono diluiti con acqua pulita,
paradossalmente definita “vivificazione”, ma non filtrati dai PFAS. Infatti gli
impianti di depurazione continuano a non limitare il problema poiché non sono
in grado di filtrarli ed eliminarli. I PFAS continuano a scorrere
abbondantemente lungo la pianura e ad accumularsi, sono fatti proprio per non
degradarsi. Questa stessa zona è toccata anche da una grande opera in
costruzione: la superstrada Pedemontana. Corre proprio lungo la fascia
di ricarica della falda acquifera di buona parte della pianura padana, è
costruita “in trincea” cioè diversi metri al di sotto del livello campagna.
Così in alcuni tratti si vedono i muri, appena costruiti, percolare liquami
tossici. Inoltre subisce continuamente crolli e rattoppi incontrando anche
discariche industriali abusive e zone instabili. Non sembra che la politica di
sviluppo della regione segua una progettazione organica tra le varie
problematiche né che ci sia un’adeguata analisi idrogeologica. Sicuramente si
continua a seguire un modello di sviluppo che non protegge territorio e salute.
Non si riscontra neanche il vantaggio economico poiché la Pedemontana negli
anni ha quadruplicato i costi che nessuna banca ha voluto finanziare e quindi
la Regione ha chiesto l’intervento dell’Anas cioè dello Stato. Per ora il costo
ammonta a 12 miliardi.
L’altra faccia del
Veneto
Già dal 2014
diverse associazioni attive sul territorio si sono riunite nel
coordinamento Acqua libera da PFAS che ha cercato di sensibilizzare cittadini,
enti pubblici e di controllo e ha chiesto per anni di indagare quale fosse il
reale impatto sull’ambiente e sulla salute. Ora che iniziano maggiori controlli
sulle acque e nel sangue degli abitanti i dati sono allarmanti e ancora molto
sottostimati.
Il movimento No
PFAS è stato il motore che ha rotto un sistema di omertà e dolo ma anche di
inadeguatezza e immobilismo tra Istituzioni e forti interessi economici. I
partecipanti hanno subito 5 avvisi di garanzia per aver spinto alle indagini e
dubitato delle rassicurazioni. Chiedono “Zero PFAS” per uscire dalle
contrattazione dei cosiddetti “limiti accettabili” che sono la mediazione
possibile per poter continuare a produrre. Nessuna opera di bonifica, che
comunque non è neanche all’orizzonte, può funzionare se prima non si bloccano
le sorgenti dell’inquinamento. Chiedono analisi e dati, di poter effettuare
esami del sangue per controllare il proprio stato di contaminazione. Non
possono effettuarli né gratuitamente né pagando il ticket e nemmeno
privatamente poiché non sono analisi comuni. I cittadini sono pertanto privati
di una forma di controllo della propria salute che rimane nelle mani di chi fa
i monitoraggi ufficiali. Nella mancanza totale di informazioni si è costituita
la Redazione di PFASLand che rappresenta l’Organo di informazione dei
gruppi-comitati-associazioni NO PFAS della Regione del Veneto che raccoglie le
più importanti realtà maturate in questi anni: Mamme No PFAS, Angry Animals dei
Centri Sociali, Greenpeace, Legambiente, ISDE, Medicina Democratica, CiLLSA,
associazione di Arzignano, Coordinamento Acqua Bene Comune di Vicenza e Verona,
Rete Gas Vicentina, gruppi territoriali NO PFAS indipendenti, in continua
nascita.
Grazie al Comitato
scientifico della Redazione PFASLand il 12 aprile è nata la prima mappa digitale navigabile sulla contaminazione da PFAS, dove ogni cittadino
potrà verificare quanto inquinati siano il pozzo, la risorgiva, il fiume, le
acque in prossimità della propria casa, del proprio orto, le stesse acque con
cui si irrigano i campi e si allevano gli animali, per arrivare poi in forma di
alimenti non solo sul proprio piatto, ma anche su quello degli altri. Uno
strumento popolare, un bene comune ma complesso, basato sui dati aggregati
ArpaV, usando software liberi come QGIS. Dal documento pubblicato dal Comitato
di Redazione PFAS.land precedentemente citato leggiamo: “Per la bonifica di
un territorio così grande, dei bacini fluviali, delle colture, per l’aiuto ai
produttori danneggiati dall’inquinamento e il risanamento totale delle loro
aziende, per la mano d’opera occorrente e gli strumenti, il personale medico e
le strutture sanitarie, c’è bisogno di grandissime risorse economiche di cui la
Regione non dispone. Sarà necessario un piano di solidarietà nazionale,
coordinato dai ministeri competenti, per garantire un budget inimmaginabile ma
necessario.
Confligge con tale bisogno la logica perversa con la quale
tutte le forze politiche del Veneto si sono accodate alla richiesta di Zaia che
esclude ogni tipo di solidarietà nazionale nei confronti di chi produce meno o
amministra male. Però non puoi chiedere aiuto agli altri se neghi il senso
della solidarietà nazionale che è alla base di un paese democratico i cui
governanti sappiano guardare un tantino più in là del proprio naso… Ricordo da
bambino i camion pieni di vestiti e coperte che partivano, salutati dalla
folla, da una Sicilia poverissima in aiuto degli alluvionati del Polesine”.
Fonte: http://www.italiachecambia.org/2019/06/pfas-storia-contaminazione-catena/?utm_source=newsletter&utm_campaign=general&utm_medium=email&utm_content=relazioni
Una filiera tessile sostenibile e consumatori
consapevoli: sulla piattaforma online Change.org è stata lanciata una petizione
mirata all’approvazione, in Italia, di una legge volta alla protezione dei mari
della penisola. L’iniziativa, partita da due imprenditori della città laniera,
conta attualmente oltre 14mila firmatari.
“Attiviamoci
affinché in Italia venga approvata una legge a protezione dei nostri mari,
che darebbe un forte impulso economico alla nostra filiera tessile,
notoriamente legata alla produzione di capi in fibre naturali come il cotone,
la lana e la seta e che quindi crei nuovi posti di lavoro”: è questo quanto si
legge nella petizione Basta microplastiche nelle nostre
acque, lanciata su Change.org da Giovanni Schneider, amministratore delegato
del Gruppo Schneider (e della Pettinatura di Verrone). Cambiare il mondo a
partire dagli abiti che indossiamo e dalla produzione, quindi, innestando una
sensibilizzazione sociale sui temi ambientali e sugli strumenti che possano
ovviare alle problematiche green. Una delle via per contrastare, ad esempio,
l’inquinamento dei mari passa dall’acquisto e dalla produzione di capi non
sintetici: a questo proposito, nella petizione, viene spiegato come la plastica
arrivi negli oceani anche attraverso le lavatrici, in quanto i vestiti composti
da tessuti sintetici rilasciano nei cestelli centinaia di migliaia di microfibre
plastiche.
In ogni lavaggio, quindi, si fa un potenziale danno ai mari, con le particelle
inquinanti che passano dalle fogne ai corsi d’acqua nostrani. Il danno, come
intuibile, è all’intero ecosistema, salute dell’uomo compresa. La plastica,
infatti, viene ingerita da molti organismi e animali marini, entrando così
anche nella catena alimentare.
In quest’ottica,
segnali concreti sono arrivati dall’America: in California è in dirittura
d’arrivo la legge che renderà obbligatoria l’etichettatura dei capi d’abbigliamento
che contengono oltre il 50% di fibre sintetiche; lo Stato di New York ha
presentato il disegno di legge AB 1549 (se approvato entrerà in vigore a
gennaio 2021) che prevede come nessuna persona, azienda o associazione possa
vendere in negozio alcun capo di abbigliamento – scarpe e cappelli esclusi –
realizzato con tessuto composto per più del 50% di materiale sintetico
senza un’apposita etichetta informativa. Il disegno di legge in questione, come
si legge nella petizione, fornisce anche una chiara definizione di microfibra
plastica, ovvero ‘una piccola particella sintetica di forma fibrosa, lunga
meno di cinque millimetri, che viene rilasciata nell’acqua attraverso il
normale lavaggio di tessuti in materiale sintetico’.
Oltre alle istruzioni previste per la cura del capo, l’etichetta – in forma di
cartellino o adesivo – dovrà riportare ben in vista, a beneficio del
consumatore, delle informazioni di carattere divulgativo sui possibili
danni dati dal lavaggio in lavatrice, consigliando quello manuale. Elena
Schneider, che insieme al fratello sostiene la petizione, è intervenuta ai
nostri microfoni e ha messo in luce la battaglia pro-ambiente intrapresa con
“Basta microplastiche nelle nostre acque”: “Come in California e a
New York – esordisce – il nostro obiettivo è che venga approvata una legge a
riguardo anche in Italia. Per questo vogliamo dare più risonanza possibile alla
petizione, che attualmente conta oltre 14mila firmatari. Quando i numeri
saranno ancor più elevati, la rivolgeremo a Sergio Costa, Ministro dell’Ambiente e della Tutela del
Territorio e del Mare. Con la petizione vogliamo anche
sensibilizzare il consumatore a guardare l’etichetta dei vestiti, non soltanto
per vederne la composizione (spesso sintetica), ma per capire come trattare il
capo di abbigliamento nel lavaggio”.
Per limitare
l’impatto ambientale, informazione e consapevolezza viaggiano verso la
sostenibilità su binari paralleli e trovano la stazione di partenza proprio a Biella,
città laniera per antonomasia. Un segnale forte, arrivato dalla provincia
piemontese che ha il tessile nel suo DNA, in una tradizione nel segno della
continuità. Elena e Giovanni, che hanno lanciato la petizione, sono entrambi
imprenditori biellesi impegnati nell’azienda tessile di famiglia. Le loro
ragioni non sono solo di natura ‘territoriale’, ma sono principalmente legate a
topic come ambiente e sostenibilità, ai quali l’imprenditrice è sempre stata
sensibile. “Mio fratello e io – argomenta – siamo sempre stati toccati da
questi temi. Io, ad esempio, ho lavorato con Slow Food e la nostra
azienda, già undici anni fa, partecipò a Terra Madre – Salone del Gusto presentando un manifesto per le fibre naturali, firmato da Petrini
nel 2008. Carlìn è stato il mio mentore e ho anche scritto la mia tesi di
laurea su Slow Food”.
Il legame tra Elena
Schneider e Petrini non finisce qui: “Ho sentito – racconta – per la prima
volta da lui il termine co-produttore, in sostituzione a quello di
consumatore. Si farebbero dei passi avanti se si ragionasse in termine di co-produzione
invece che di consumo.
Come le etichette
che informano sugli ingredienti degli alimenti, anche quelle nei vestiti
avrebbero la funzione di far comprendere l’impatto ambientale e sociale che ha
un determinato capo di abbigliamento. Non bisogna far finta che il problema non
ci tocchi: siamo tutti co-produttori di ciò che mangiamo e vestiamo. La tracciabilità
e la relativa attenzione – conclude – non devono esserci solo sul cibo, ma
vanno rivolte anche ai vestiti; bisogna andare al di là della griffe e capire
cosa c’è dietro a un marchio. La consapevolezza è fondamentale: estetica ed
etica possono coesistere”.
La ricerca ha osservato che i depuratori non trattengono numerose sostanze chimiche che dagli scarichi industriali, zootecnici o umani finiscono nell’acqua del capoluogo lombardo. “Si rischia in futuro anche l’interessamento della falda profonda, con possibili effetti sulla qualità dell’acqua potabile e sulla salute umana”
Uno studio condotto dall’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri in collaborazione con il Servizio Idrico di MM (ex Metropolitana Milanese e finanziato da Fondazione Cariplo, ha valutato l’inquinamento dei cosiddetti nuovi inquinanti (comprendenti farmaci, droghe, disinfettanti, prodotti chimici per la cura della persona, sostanze perfluorurate e plastificanti, oltre a caffeina e nicotina) nel sistema acquifero della grande area urbana milanese e della loro distribuzione nel corso di 5 anni. Le acque dei fiumi che percorrono l’area Milanese, le acque fognarie prodotte dalla città di Milano e le acque delle falde da cui si estraggono le acque potabili, sono state analizzate per verificare la presenza di circa 80 sostanze. Le analisi dei fiumi in ingresso e in uscita dalla città, l’Olona, il Seveso e il Lambro, hanno mostrato che Milano scarica ogni giorno nei fiumi circa 6.5 kg di farmaci, 1,3 kg di disinfettanti e di sostanze chimiche utilizzate per la cura della persona, 200 g di sostanze perfluorurate, 600 g di plastificanti e 400 g di droghe di abuso, oltre a circa 13 kg di nicotina e caffeina. Il che, ad esempio, significa circa 2,5 tonnellate all’anno di farmaci, quasi mezza tonnellata di prodotti chimici per la cura della persona, 1,6 quintali di droghe d’abuso. Secondo Sara Castiglioni, che dirige l’Unità di biomarkers ambientali dell’Istituto Mario Negri: “Tutte queste sostanze vengono utilizzate quotidianamente in quantità elevate e possono essere immesse nell’ambiente tramite gli scarichi urbani. Parte del carico di inquinanti deriva dai depuratori che ricevono le acque fognarie prodotte dalla città di Milano contenti inquinanti in notevoli quantitativi. I depuratori contribuiscono a ripulirli prima del loro scarico nell’ambiente ma solo parzialmente e molti inquinanti, in particolare i farmaci, le droghe e i prodotti chimici utilizzati per la cura della persona permangono nelle acque trattate e sono riversati in canali e fiumi con ripercussioni sugli ecosistemi. A ciò si aggiungono anche altre fonti di inquinamento, tra cui gli scarichi diretti delle attività zootecniche ed industriali.
“La contaminazione dei fiumi – spiega Ettore Zuccato, Capo Laboratorio di Tossicologia Alimentare,- impatta sull’ambiente ma anche sull’uomo, dato che l’inquinamento dei fiumi è correlato a quello delle falde acquifere. Fortunatamente al momento il trasporto di inquinanti sembra riguardare più la falda superficiale e meno la profonda, da cui si ottiene l’acqua per il consumo umano e quindi ad oggi la qualità dell’acqua può definirsi buona. Si rischia però in futuro anche l’interessamento della falda profonda, con possibili effetti sulla qualità dell’acqua potabile e sulla salute umana. Al momento i dati mostrano che non ci siano rischi associati a queste sostanze ed è con un monitoraggio continuo che sarà possibile garantire la qualità della nostra acqua. Tra gli interventi possibili vi è la regolamentazione degli scarichi in ambiente, migliorando le capacità di rimozione dei depuratori e controllando gli scarichi diretti, ma anche sensibilizzando i consumatori a una maggior attenzione per utilizzo e smaltimento di farmaci e di altri prodotti chimici che possono inquinare l’ambiente”.
“Questi studi – aggiunge Enrico Davoli, alla guida del Laboratorio di Spettrometria di Massa, Dipartimento Ambiente e Salute, dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri – sono importanti poiché misurano quanto le reti acquifere delle grandi città, delle ‘regioni urbane’, siano vulnerabili e come sia importante la conoscenza del loro stato di salute per tutti i processi di pianificazione del territorio e delle risorse disponibili e per programmare interventi”.
I risultati dello studio sono disponibili on-line:
(https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0043135417310424),
e saranno pubblicati su Water Research, Volume 131, 15 marzo 2018, pag. 287–298.
Pesticidi nelle acque, cresce la percentuale di punti contaminati: +20% nelle acque superficiali, +10% in quelle sotterranee. Sono i dati del nuovo rapporto Ispra. Rinvenute 224 sostanze diverse, il glifosato è tra quelle che superano più spesso i limiti.
Sono circa 130.000 le tonnellate di prodotti fitosanitari utilizzate ogni anno in Italia. Ad essi, si aggiungono i biocidi, impiegati in tanti settori di attività, di cui non si hanno informazioni sulle quantità e sulla distribuzione geografica delle sorgenti di rilascio. I risultati del monitoraggio di queste sostanze sono contenuti nell’edizione 2016 del Rapporto Nazionale Pesticidi nelle Acque dell’ISPRA (disponibile QUI).
«La contaminazione da pesticidi è un fenomeno complesso e difficile da prevedere, sia per il grande numero di sostanze impiegate, sia per la molteplicità dei percorsi che possono seguire nell’ambiente – spiega Ispra nella nota diffusa – Il rapporto viene costruito sulla base dei dati forniti dalle Regioni e dalle Agenzie regionali per la protezione dell’ambiente, ma la copertura del territorio non è completa né omogenea soprattutto per quanto riguarda le regioni centro-meridionali: non si dispone di informazioni relative a Molise e Calabria e mancano i dati relativi a cinque Regioni per quanto riguarda le acque sotterranee. Nel biennio 2013-2014 sono stati analizzati 29.220 campioni per un totale di 1.351.718 misure analitiche, con un sensibile aumento rispetto al biennio precedente. Nel 2014, in particolare, le indagini hanno riguardato 3.747 punti di campionamento e 14.718 campioni e sono state cercate complessivamente 365 sostanze (nel 2012 erano 335). Sono state trovate 224 sostanze diverse, un numero sensibilmente più elevato degli anni precedenti (erano 175 nel 2012): questo dato indica una maggiore efficacia delle indagini condotte».
«Gli erbicidi sono ancora le sostanze più rinvenute, soprattutto a causa dell’utilizzo diretto sul suolo, spesso concomitante con i periodi di maggiore piovosità di inizio primavera, che ne determinano un trasporto più rapido nei corpi idrici superficiali e sotterranei. Rispetto al passato, è aumentata notevolmente la presenza di fungicidi e insetticidi, soprattutto perché è aumentato il numero di sostanze cercate e la loro scelta è più mirata agli usi su territorio. Le acque superficiali “ospitano” pesticidi nel 63,9% dei 1.284 punti di monitoraggio controllati (nel 2012 la percentuale era 56,9); nelle acque sotterranee, sono risultati contaminati il 31,7% dei 2.463 punti (31% nel 2012). Il risultato complessivo indica un’ampia diffusione della contaminazione, maggior e nelle acque di superficie, ma elevata anche in quelle sotterranee, con pesticidi presenti anche nelle falde profonde naturalmente protette da strati geologici poco permeabili».
«Nelle acque superficiali, 274 punti di monitoraggio (21,3% del totale) hanno concentrazioni superiori ai limiti di qualità ambientali. Le sostanze che più spesso hanno determinato il superamento sono: glifosato e il suo metabolita AMPA (acido aminometilfosforico), metolaclor, triciclazolo, oxadiazon, terbutilazina e il suo principale metabolita, desetil-terbutilazina. Per quanto riguarda il glifosato e il metabolita AMPA, presenti rispettivamente nel 39,7% e nel 70,9% dei punti di monitoraggio delle acque superficiali, va chiarito che sono cercati solo in Lombardia e Toscana, dove sono tra i principali responsabili del superamento dei limiti di qualità ambientali. Nelle acque sotterranee, 170 punti (6,9% del totale) hanno concentrazioni superiori ai limiti di qualità ambientale. Le sostanze più frequentemente rinvenute sopra il limite sono: bentazone, metalaxil, terbutilazina e desetil-terbutilazina, atrazina e atrazina-desetil, oxadixil, imidacloprid, oxadiazon, bromacile, 2,6-diclorobenzammide, metolaclor».
«Diffusa è la presenza dei neonicotinoidi sia nelle acque superficiali, sia in quelle sotterranee. Tra questi, in particolare, l’imidacloprid e il tiametoxan, che hanno anche determinato il superamento dei limiti di qualità. I neonicotinoidi sono la classe di insetticidi più utilizzata a livello mondiale e largamente impiegata anche in Italia. Uno studio condotto a livello mondiale (Task Force sui Pesticidi Sistemici– 2015) evidenzia come l’uso di queste sostanze sia uno dei principali responsabili della perdita di biodiversità e della moria di api. Nel complesso la contaminazione è più ampia nella pianura padano-veneta dove, come già segnalato in passato, le indagini sono generalmente più efficaci. Nelle cinque regioni dell’area, infatti, si concentra poco meno del 60% dei punti di monitoraggio dell’intera rete nazionale. In alcune Regioni la contaminazione è molto più diffusa del dato nazionale, arrivando a interessare oltre il 70% dei punti delle acque superficiali in Veneto, Lombardia, Emilia Romagna, con punte del 90% in Toscana e del 95% in Umbria. Nelle acque sotterranee la diffusione della contaminazione è particolarmente elevata in Lombardia 50% dei punti, in Friuli 68,6%, in Sicilia 76%».
«Più che in passato, sono state trovate miscele di sostanze nelle acque, contenenti anche decine di componenti diversi. Ne sono state trovate fino a 48 a sostanze in un singolo campione. La tossicità di una miscela è sempre più alta di quella dei singoli componenti. Si deve, pertanto, tenere conto che l’uomo e gli altri organismi sono spesso esposti a “cocktail” di sostanze chimiche, di cui a priori non si conosce la composizione. È necessario prendere atto di queste evidenze, confermate a livello mondiale, e del fatto che le metodologie utilizzate in fase di autorizzazione, che valutano le singole sostanze e non tengono conto degli effetti cumulativi, debbono essere analizzate criticamente al fine di migliorare la stima del rischio».
«C’è stata una sensibile diminuzione delle vendite di prodotti fitosanitari scesi nel 2014 a circa 130.000 tonnellate, con un calo del 12% rispetto al 2001. Nello stesso periodo si è ridotta del 30,9% la quantità di prodotti più pericolosi (molto tossici e tossici). Indubbiamente c’è un più cauto impiego delle sostanze chimiche in agricoltura, come richiesto dalle norme in materia, che prevedono l’adozione di tecniche di difesa fitosanitaria a minore impatto, in cui il ricorso alle sostanze chimiche va visto come l’ultima risorsa. L’analisi dei dati di monitoraggio, peraltro, non evidenzia una diminuzione della contaminazione. Nel periodo 2003 –2014, infatti, la percentuale di punti contaminati nelle acque superficiali è aumentata di circa il 20%, in quelle sotterranee di circa il 10%. Il fenomeno si spiega in parte col fatto che in vaste aree del centro– sud, solo con ritardo, emerge una contaminazione prima non rilevata. La risposta dell’ambiente, inoltre, risente della persistenza delle sostanze e delle dinamiche idrologiche spesso molto lente, specialmente nelle acque sotterranee, che possono determinare un accumulo di inquinanti, e un difficile ripristino delle condizioni naturali».
Lo studio pubblicato negli scorsi giorni sulla rivista Plos One ha evidenziato i dati sull’inquinamento da residui plastici degli oceani. Gli oceani stanno diventando, sempre di più, discariche a cielo aperto nei quali si accumulano tutti i rifiuti plastici dell’umanità. Uno studio pubblicato sulla rivista Plos One ha quantificato per la prima volta la quantità di detriti plastici nelle acque degli oceani valutando in 269mila tonnellate e in 5mila miliardi di particole i rifiuti presenti nelle acque oceaniche. Si tratta – a detta dei ricercatori statunitensi, neozelandesi, cileni, francesi, sudafricani e australiani che hanno compiuto questa stima – di cifre “molto prudenti” e che possono essere considerate come un quantitativo minimo. Bottiglie, sacchetti, polistirolo e altri imballaggi, ma anche particole di natura industriale vengono buttati in mare o trascinati da correnti fluviali e marine, dai venti. La situazione è peggiorata nell’ultimo quarto di secolo, immense zone di convergenza sono state create dalle correnti, la più nota di tutte è il Great Pacific Garbage Patch anche nota come la grande discarica del pacifico che si trova nel Pacifico Settentrionale ed ha un’ampiezza stimata di 3,4 milioni di kmq. Il team di ricercatori che ha compiuto il “censimento della plastica” ha raccolto dati dal 2007 al 2013, in ventiquattro campagne oceanografiche e 1500 siti-campione. Ovviamente la plastica non si accumula solamente nei vortici oceanici, ma è diventata un problema serio anche al largo delle coste, comprese quelle del Mediterraneo. La quantità di residui plastici presente negli oceani è circa un millesimo della plastica prodotta nel 2012 in tutto il mondo, 288 milioni di tonnellate. Ma il problema resta comunque immane per le conseguenze per gli ecosistemi marini sono gravissime a causa della degradazione a opera dei raggi ultravioletti, della biodegradazione, dell’ingestione da parte degli organismi marini e degli accumuli sulle coste. La contaminazione “abbraccia” tutta la catena alimentare e dallo zooplancton può arrivare fino all’uomo. I pezzi di plastica vengono inoltre ingeriti da numerose specie marine, dalle tartarughe ai pesci, dagli uccelli ai mammiferi, e provocano lesioni interne, avvelenamenti e soffocamenti.
L’acqua è una delle risorse più importanti per il nostro Pianeta e sarà celebrata a Venezia con la rassegna Aquae patrocinata da Expo 2015
Aquae Venezia 2015 è un luogo e un evento dedicato alla nostra principale risorsa, l’acqua. La manifestazione si terrà dal 3 maggio al 31 ottobre 2015 sotto il patrocinio di Expo Milano 2015 e dunque negli stessi giorni in cui si snoderà il tema Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita. Lo spazio dentro cui si svolgerà Aquae Venezia 2015, i cui eventi e scenografie sono curati da Davide Rampello, è un padiglione polifunzionale che nasce da un progetto dell’architetto Michele De Lucchi che pure ha progettato l’importante Padiglione Zero dove trovano spazio l’ONU e la FAO e di cui cura gli eventi proprio De Lucchi. e curatore del palinsesto eventi.
L’idea di Aquae è di portare, attraverso un articolato programma di esposizioni, esperienze, convegni e innovazioni tecnologiche il tema dell’acqua dipanato in uno spazio espositivo di 60.000 mq . Cosa si potrà fare in pratica? Grazie a Expo Venice e in collaborazione con Fondazione Umberto Veronesi, eAmbiente, Federutility si potrà partecipare a è “Pianeta Acqua” un ciclo di tre fiere curato da Gabriella Chiellino a carattere b2b e b2c in cui si affrontano i sistemi di bonifica, irrigazione, contrasto alla desertificazione, recupero di aree inquinate; un secondo momento curato da Fondazione Veronesi è dedicato a Acqua e Vita, e qui sarà Chiara Tonelli che si è aggiudicata recentemente il Solar Decathlon 2014 a curare il ciclo di convegni in cui l’acqua darà declinata nelle varianti del benessere e sella salute. Ci sarà spazio per il divertimento, anche dei più piccoli nonché corsi di cucina e showcooking. Peraltro all’esterno del padiglione è prevista una esposizione che sviluppa il tema Alla scoperta dell’acqua dove sarà possibile sperimentare l’acqua in maniera divertente e interattiva.
E proprio in virtù di questo profondo interesse dimostrato da Expo 2015 che ha deciso di dislocare a Venezia un padiglione così importante dedicato proprio alla nostra risorsa più preziosa sarebbe interessante ribadire che l’acqua è un diritto per tutti gli esseri umani e che non può essere né comprata e né venduta ma solo fraternamente condivisa.
Le deroghe concesse dalla Commissione Europea erano vincolate a richieste che sono state disattese e che hanno portato all’apertura di una procedura di infrazione. C’è troppo arsenico nelle acque italiane, ina maniera specifica in quelle del Lazio. La Commissione Ue ha aperto una procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia per la contaminazione dell’acqua da arsenico e fluoro, una situazione che continua a non essere risolta nonostante la concessione di tre deroghe di tre anni ciascuna. I valori limite previsti dalla direttiva Ue sulle acque potabili non vengono rispettati in 37 zone. L’Italia, come tutti i Paesi dell’Unione europea, ha l’obbligo di controllare e testare. La Commissione Ue ha aperto una procedura d’infrazione contro l’Italia per la contaminazione dell’acqua da arsenico e fluoro, in particolare nel Lazio, ancora irrisolto nonostante la concessione di tre deroghe di tre anni ciascuna. I valori limite previsti dalla direttiva Ue sull’acqua potabile non sono ancora rispettati in 37 zone. L’Italia, come tutti i Paesi Ue, ha l’obbligo di controllare l’acqua destinata al consumo umano, in base a 48 parametri microbiologici e chimici e indicatori. Nel caso vengano riscontrati nell’acqua livelli elevati di arsenico o di altri inquinanti, gli Stati membri possono derogare per un periodo limitato di tempo ai valori limite fissati dalla direttiva, purché ciò non presenti un potenziale pericolo per la salute umana e l’approvvigionamento delle acque destinate al consumo umano nella zona interessata non possa essere mantenuto in nessun altro modo. Negli ultimi anni l’emergenza arsenico in Lazio ha creato notevoli disagi, con i casi limite di comuni che hanno dovuto fare ricorso alle autobotti. L’Italia ha già usufruito del numero massimo di deroghe consentito dalla normativa Ue. Bruxelles aveva richiesto che fosse assicurato l’approvvigionamento di acqua salubre destinata al consumo da parte dei neonati e dei bambini fino all’età di tre anni. Inoltre, deroghe erano subordinate poi al fatto che l’Italia fornisse agli utenti informazioni adeguate su come ridurre i rischi associati al consumo dell’acqua potabile in questione e in particolare dei rischi associati al consumo di acqua da parte dei bambini. Infine, l’Italia avrebbe dovuto attuare un piano di azioni correttive e informare la Commissione in merito ai progressi compiuti. A un anno dalla scadenza della terza deroga la direttiva continua a essere violata e in 37 zone di approvvigionamento di acqua del Lazio i valori limite di arsenico e fluoro non sono rispettati. E in conseguenza di questo fatto, come vi avevamo preannunciato alcuni giorni fa su Ecoblog, Bruxelles ha fatto partire la procedura di infrazione con l’invio di una lettera di costituzione in mora.
La maggiore concentrazione di microframmenti plastici è stata rilevata in cinque grandi aree negli oceani Atlantico, Pacifico e Indiano
I microframmenti della plasticainquinano ormai l’88% della superficie degli oceani e stanno entrando nella catena alimentare perché assorbiti dai pesci e da altri animali. A lanciare l’allarme è uno studio di alcuni ricercatori spagnoli del Centro superiore di Ricerca Scientifica dell’Università di Cadice, secondo i quali
le correnti oceaniche trasportano oggetti di plastica ridotti a piccolissimi frammenti dalle radiazioni solari e queste microplastiche che possono durare in questo stato per centinaia di anni sono state riscontrate nell’88% dei campioni di superficie degli oceani dalla spedizione Malaspina nel 2010.
La ricerca ha confermato l’esistenza di cinque grandi zone di convergenza nelle quali queste particole di plastica si accumulano sulla superficie delle acque marine: due nell’Atlantico (a est delle coste brasiliane e statunitensi), due nel Pacifico (a ovest delle coste cilene e californiane) e una nell’Oceano indiano (fra Australia e Madagascar). Polietilene e polipropilene sono i principali residui plastici ritrovati nelle acque degli oceani. Secondo i ricercatori dell’Università di Cadice i rifiuti fluttuanti sugli oceani sono fra le 7000 e le 35000 tonnellate con la maggiore concentrazione nel Pacifico del Nord che rappresenta fra il 33 e il 35% del totale. Il danno provocato dai rifiuti plastici nelle acque oceaniche è stimato in 133 miliardi di dollari(9,5 miliardi di euro), una minaccia su scala globale per la vita marina, il turismo e la pesca, come non ha mancato di ricordare l’Onu qualche giorno fa nel summit sull’ambiente tenutosi a Nairobi la scorsa settimana.
I negazionisti avevano citato a giudizio l’ente pubblico per la ricerca delle acque e dell’atmosfera, sostenendo che aveva truccato i dati delle temperature. Il tribunale ha trovato la cosa del tutto infondata e li ha condannati a pagare le spese processuali
Strani davvero i tempi in cui qualcuno vorrebbe fare avvenire le discussioni scientifiche in tribunale. In Nuova Zelanda ( Aotearoa in lingua Maori) la lobby negazionista Climate Science Education Trust aveva citato in giudizio il National Institute for Water and Wtmospheric research (NIWA), sostenendo che la serie storica delle temperature nelle due isole australi non fosse corretta e influenzasse in modo inappropriato la politica. Il giudice ha respinto la richiesta, ritenendo il tribunale non competente nelle questioni scientifiche e ritenendo che il Trust “abbia avviato una crociata contro l’ente governativo di ricerca agendo in modo irragionevole“. Per questo il Trust di negazionisti è stato condannato a pagare 80000 $ neozelandesi (circa 50000 €) per le spese processuali. Si spera che questo sia un buon precedente non solo per l’Oceania, ma per tutto il pianeta. Come si può vedere dal grafico in alto, le temperature in Nuova Zelanda, misurate in 7 località principali sono cresciute di quasi un grado nei cento anni tra il 1910 e il 2010. Dei 35 anni con temperature sopra alla media 1971-2000, ben 19 sono stati dopo il 1980. Trend simili, se non più elevati, si riscontrano prendendo in considerazione altre 11 stazioni meteo, oppure misurazioni effettuate dalle navi. Secondo il NIWA, i cambiamenti climatici potrebbero portare in Nuova Zelanda inondazioni alternate a siccità, venti più forti oltre all’innalzamento dei mari. Wellington, Auckland, Cristchurch e le principali città neozelandesi sono tutte collocate lungo le coste delle due isole o in loro prossimità.