10.Un’impostazione europea sulla sostenibilità

Attraverso una serie di misure legislative, i responsabili politici dell’UE mirano a rendere l’Europa più efficiente sotto il profilo delle risorse. Ma come può l’Europa trovare un equilibrio tra economia e natura? Nell’ambito della conferenza Rio+20, qual è il significato della parola sostenibilità per l’UE e le aree in via di sviluppo? Presentiamo un punto di vista. Intervista con Gerben-Jan Gerbrandy Gerben-Jan Gerbrandy è stato un membro del Parlamento europeo nel gruppo dell’Alleanza dei Liberali e dei Democratici per l’Europa dal 2009. Proviene dal partito liberale olandese «Democrats 66».29

Qual è la sfida maggiore a cui è sottoposto l’ambiente? Come possiamo affrontarla?

«La sfida maggiore è costituita dall’eccessivo sfruttamento delle risorse naturali. Il consumo umano va ben oltre i limiti naturali del nostro pianeta. Il nostro modo di vivere, più nello specifico il nostro modo di gestire l’economia, semplicemente non è sostenibile. La popolazione mondiale raggiungerà i nove miliardi entro qualche decennio e avrà bisogno del 70% di cibo in più. Di conseguenza, una seconda sfida riguarda i modi per nutrire questa crescente popolazione, dal momento che già stiamo già affrontando il problema della scarsità di numerose risorse. Per affrontare queste sfide, è necessario modificare le basi della nostra economia. Ad esempio, le nostre economie non pongono un valore economico su un’ampia serie di benefici che riceviamo gratuitamente. Il valore di una foresta è preso in considerazione quando la si trasforma in legname, ma non quando viene mantenuta intatta. Il valore delle risorse naturali dovrebbe, in qualche modo, essere riflesso nell’economia.»

Possiamo veramente cambiare le basi della nostra economia?

«Ci stiamo lavorando. Ritengo che presto riusciremo a trovare dei modi per inserire il valore completo delle risorse naturali all’interno dell’economia. Ma, fatto ancora più importante, vi sono tre elementi chiave che stanno costringendo l’industria a diventare più efficiente dal punto di vista delle risorse. Il primo è la scarsità delle risorse. Di fatto, siamo in presenza di ciò che chiamo la «rivoluzione industriale verde». La scarsità delle risorse costringe le imprese a impostare processi per il recupero e il riutilizzo delle risorse o a cercare altri modi per utilizzare le risorse in modo efficiente.  La spinta al consumo costituisce un altro elemento. Guardiamo le pubblicità. I grandi produttori di automobili non parlano più di velocità, ma di prestazioni ambientali. Inoltre, le persone sono notevolmente più consapevoli dell’immagine dell’impresa per cui lavorano. Il terzo elemento è la legislazione. Abbiamo costantemente bisogno di migliorare la legislazione in materia ambientale poiché  non tutto può essere conseguito tramite le pressioni del mercato, la scarsità delle risorse e la spinta dei consumatori.»30

Qual è il fattore più importante che determina le scelte del consumatore?

«Senza dubbio il prezzo. Per ampi segmenti della società, scegliere in base a ragioni diverse dal prezzo costituisce un lusso. È tuttavia possibile scegliere di consumare prodotti alimentari di stagione e locali, oppure prodotti freschi, che spesso sono perfino più economici. Per queste persone, e per la società nel suo complesso, ciò comporta evidenti benefici per la salute. La scelta di un’opzione più sostenibile dipende dall’infrastruttura nonché dalla consapevolezza della gente del loro impatto sull’ambiente. Se non è presente alcuna infrastruttura per il trasporto pubblico, non possiamo aspettarci che la gente smetta di recarsi al lavoro in auto. Oppure, nel caso della legislazione, se non siamo in grado di spiegare il valore di certe norme o leggi, sarà quasi impossibile applicarle. Abbiamo bisogno di coinvolgere e convincere le persone. Ciò richiede spesso la traduzione delle nozioni scientifiche nella lingua di tutti i giorni, a beneficio non solo dei cittadini, ma anche dei responsabili politici.»

Cosa può rendere un «successo» la conferenza Rio+20?

«Abbiamo bisogno di risultati concreti, come un accordo relativo a un nuovo quadro istituzionale od obiettivi specifici sull’economia verde. Ma, anche in assenza di risultati concreti, la conferenza può avere una grande influenza. Sono un convinto sostenitore della creazione di un tribunale internazionale per i crimini ambientali o di un quadro istituzionale che eviti il ripetersi di situazioni di stallo come quelle che abbiamo sperimentato nelle recenti tornate di negoziati sull’ambiente. Indipendentemente dai progressi compiuti nella creazione di tali istituzioni, solamente il fatto che stiamo discutendo e provando a trovare soluzioni congiunte costituisce un enorme passo in avanti. Fino a poco tempo fa, i negoziati globali sull’ambiente dividevano il mondo in due parti: i paesi sviluppati e i paesi in via di sviluppo. Ritengo che ci stiamo allontanando da tale approccio bipolare. A causa della maggiore dipendenza economica dalle risorse naturali, molti dei paesi in via di sviluppo saranno tra i primi a subire le conseguenze della scarsità delle risorse. Se la conferenza di Rio riuscirà a convincere molti di essi ad adattarsi a pratiche più sostenibili, la considererò un grande successo.»

In tale contesto, l’Europa può aiutare il mondo in via di sviluppo?

«Il concetto di economia verde non è importante solamente per i paesi sviluppati. Esso può di fatto prevedere una prospettiva più lunga. Al momento, molti dei paesi in via di sviluppo stanno vendendo le proprie risorse naturali a prezzi molto bassi. Le prospettive a breve termine sono allettanti, ma potrebbero anche significare che i paesi stanno svendendo il loro benessere e la loro crescita futuri. Tuttavia, ritengo che la situazione stia cambiando. I governi si stanno preoccupando maggiormente delle implicazioni a lungo termine delle esportazioni delle risorse. In numerosi paesi in via di sviluppo l’industria ha iniziato a investire anche nella sostenibilità. Così come le loro controparti nei paesi sviluppati, anch’essi affrontano la scarsità  delle risorse. Ciò costituisce un incentivo finanziario molto forte per le imprese di tutto il mondo. Personalmente, ritengo che potremmo contribuire aprendo i nostri mercati agricoli e permettendo a questi paesi di generare più valore aggiunto. Attualmente, le imprese straniere arrivano ed estraggono le risorse e vi è solo un minimo input economico da parte della popolazione locale. L’agricoltura in generale è fondamentale. Se guardiamo alle sfide future connesse alla produzione alimentare globale, è evidente che abbiamo bisogno di più cibo e per fare ciò occorre aumentare l’efficienza produttiva nei paesi in via di sviluppo. Una maggiore produzione agricola nei paesi in via di sviluppo ridurrebbe inoltre le loro importazioni alimentari.»

Come cittadino europeo, cosa significa per Lei «vivere in modo sostenibile»?

«Significa una serie di piccole cose, come indossare un maglione invece di alzare il riscaldamento, utilizzare i trasporti pubblici invece dell’automobile ed evitare di viaggiare in aereo se possibile. Significa anche portare i miei figli, ma anche gli altri, a conoscenza del concetto di sostenibilità e dell’impatto delle loro scelte quotidiane. Non posso affermare che per me è sempre possibile evitare di viaggiare in aereo, data la mia posizione. Ma questo è il motivo per cui dobbiamo rendere il viaggio in aereo più sostenibile insieme ai nostri modelli di consumo non sostenibili. Questa è la sfida dell’economia verde.»

Fonte: EEA (agenzia europea ambiente)

 

9.Locale e globale

Di fronte alla scarsità e alle crescenti pressioni cui sono sottoposte risorse vitali come l’acqua e la terra, sapere chi  rende le decisioni può essere tanto importante quanto il modo in cui le risorse naturali vengono gestite e utilizzate. Un coordinamento globale è spesso fondamentale, ma senza un consenso e una partecipazione locali, nulla può essere fatto sul campo.23

Probabilmente tutti conoscono la storia del piccolo Hans Brinker, il bambino che trascorse la notte tappando con un dito la fessura che si era aperta in una diga per evitare che l’acqua fuoriuscisse e inondasse la città di Harlem, nei Paesi Bassi. Pochi sanno, però, che è stata un’autrice statunitense, Mary Mapes Dodge (1831–1905), a metterla per iscritto senza mai essere stata nei Paesi Bassi. Joep Korting non è altrettanto famoso, ma rappresenta un anello fondamentale di uno dei più sofisticati sistemi di gestione dell’acqua, che coinvolge l’amministrazione locale, regionale e nazionale, oltre a essere un punto di contatto con le autorità di altri paesi e i sistemi informatici di monitoraggio avanzato che fanno uso di satelliti per il controllo 24 ore su 24 delle infrastrutture. Joep funge anche da collegamento con la realtà sul campo, essenziale per l’attuazione di uno degli strumenti legislativi dell’UE più ambiziosi e completi di sempre: la direttiva quadro sulle acque (DQA). Tale direttiva prevede un’azione coordinata per raggiungere un «buono stato» di tutte le acque dell’UE, incluse le acque superficiali e sotterranee, entro il 2015. Definisce inoltre le modalità di gestione delle risorse idriche sulla base dei distretti idrografici naturali. Altri strumenti legislativi dell’UE, fra cui la direttiva quadro sulla strategia per l’ambiente marino e la direttiva sulle alluvioni, integrano la DQA per migliorare e proteggere i corpi idrici europei e la vita acquatica.

Ripensare il nostro stile di vita

Che l’acqua rappresenti un problema serio per i Paesi Bassi non è un segreto per nessuno. Circa il 25% del territorio, su cui risiede il 21% della popolazione neerlandese, si trova sotto il livello del mare. Il 50% della superficie emerge appena di un metro. I Paesi Bassi non devono però fare i conti solo con il mare. L’approvvigionamento di acqua dolce a cittadini e aziende, la gestione dei fiumi provenienti da altri paesi e la carenza d’acqua nei mesi caldi sono solo alcuni dei problemi da risolvere.  Paesi Bassi non sono soli. L’acqua sta diventando una questione fondamentale ovunque nel mondo. Durante il XX secolo abbiamo assistito a un’espansione demografica e a una crescita dell’economia, dei consumi e dei rifiuti senza precedenti. Solo i prelievi idrici sono triplicati negli ultimi 50 anni.

L’acqua è una risorsa essenziale.

Ci sostiene, ci unisce, ci aiuta a crescere. Senza l’acqua, le nostre società non potrebbero sopravvivere. Dipendiamo dall’acqua non solo per coltivare il cibo che mangiamo, ma anche per produrre la maggior parte dei beni e dei servizi di cui disponiamo24

L’acqua è solo una delle risorse sottoposte a crescente pressione. Molti altri aspetti ambientali, dalla qualità dell’aria alla disponibilità di terra, subiscono le gravi conseguenze di sviluppi importanti quali l’espansione demografica, la crescita economica e l’aumento dei consumi. Pur non avendo il quadro completo, quel che sappiamo dell’ambiente ci spinge a ripensare il modo in cui utilizziamo e gestiamo le risorse a nostra disposizione. Tale ripensamento, l’economia verde, potrebbe comportare un cambiamento sostanziale nel modo in cui viviamo, conduciamo gli affari, consumiamo e gestiamo i rifiuti e trasformare il nostro intero rapporto con il pianeta. Un elemento fondamentale dell’economia verde è la gestione efficiente delle risorse naturali offerte dalla terra. Cosa si intende per gestione efficiente delle risorse? Cosa potrebbe significare nel caso dell’acqua?25

La gestione dell’acqua sul campo

Tutti i giorni, alle 8 del mattino, Joep inizia la sua giornata lavorativa presso il gestore idrico locale di Deurne, nei Paesi Bassi. Fra le altre mansioni, ha quella di monitorare un breve tratto dei 17.000 chilometri di dighe del piccolo paese, 5.000 dei quali costruiti per proteggere il territorio dal mare e dai corsi d’acqua più importanti. Joep controlla inoltre canali, chiuse e paratoie, talvolta rimuovendo rifiuti o scarti agricoli, talvolta riparando attrezzature danneggiate. Qualsiasi operazione svolga, misura costantemente il livello dell’acqua e prende nota dei possibili aggiustamenti. Nell’area in cui Joep lavora sono installate 500 briglie, monitorate quotidianamente. Regolandole verso l’alto o verso il basso, è possibile alzare o abbassare il livello dell’acqua per controllarne il flusso attraverso la regione. Pur avvalendosi di questi sistemi all’avanguardia, Joep e altri sette addetti ogni giorno azionano e monitorano manualmente le chiuse. I livelli dell’acqua sono costantemente sotto controllo ed esistono un piano d’intervento di emergenza e alcune linee telefoniche di emergenza attive 24 ore su 24.

La democrazia delle parti interessate

Joep e i suoi colleghi mettono in pratica le decisioni prese dagli enti neerlandesi di gestione del patrimonio idrico. Attualmente i Paesi Bassi ne contano 25, attivi a livello locale. Nel loro complesso, rappresentano una nozione istituzionale risalente al XIII secolo, quando gli agricoltori si riunirono e concordarono di provvedere insieme al drenaggio dei campi. Unici nel loro genere, tali organismi sono del tutto autonomi rispetto all’amministrazione locale e dispongono addirittura di bilanci ed elezioni separati, il che li rende l’istituzione democratica più antica del paese. «Ciò significa che, nell’ambito delle deliberazioni di bilancio o delle elezioni locali, non dobbiamo competere con gli investimenti destinati ai campi da calcio, all’edilizia scolastica, ai circoli giovanili o alle nuove strade, che forse risulterebbero scelte più popolari», dichiara Paula Dobbelaar, direttrice del consiglio delle acque del distretto di Aa en Maas e capo di Joep.26

«Svolgiamo anche attività quotidiane: ad esempio, in relazione alla direttiva quadro sulle acque, ci stiamo adoperando per far sì che i fiumi possano tornare a scorrere più liberamente, formando meandri e seguendo il tracciato naturale, senza necessariamente assumere un andamento rettilineo. Questa libertà e questo spazio accresciuti conferiscono ai corsi d’acqua un aspetto diverso: diventano parte integrante di un ecosistema più naturale», afferma Paula. «Il problema dei Paesi Bassi è che in passato siamo stati in grado di organizzarci molto bene e abbiamo saputo gestire l’acqua in modo efficace: da 50 anni a questa parte viviamo al sicuro e adesso le persone danno tutto per scontato. Ad esempio, lo scorso anno in questa parte dell’Europa abbiamo avuto precipitazioni intense e, mentre in Belgio la popolazione era molto preoccupata, nei Paesi Bassi tutti erano tranquilli: immaginavano che il problema sarebbe stato gestito», aggiunge. Come accennato, i membri dell’ente idrico locale vengono eletti, ma solo il 15% dei cittadini partecipa a queste  consultazioni. «Non è un organismo realmente rappresentativo e, ancora una volta, la causa sta nel fatto che la popolazione ha sviluppato una sorta di immunità nei confronti delle questioni relative all’acqua», dichiara ancora Paula.

La distanza tra il livello locale e il livello globale

Le principali opzioni politiche per una gestione del patrimonio idrico efficace e sostenibile devono includere l’innovazione tecnologica, una governance flessibile e collaborativa, la partecipazione e la consapevolezza dell’opinione pubblica e una serie di strumenti economici e di investimenti. Il coinvolgimento della popolazione a livello locale è essenziale. «L’acqua è certamente un elemento di congiunzione a livello globale e locale, sia in termini di problemi che di soluzioni», dichiara Sonja Timmer, della divisione internazionale dell’associazione degli enti idrici regionali neerlandesi, l’organismo che coordina la gestione dell’acqua nei Paesi Bassi. «La realtà è che, nonostante i livelli elevati di sicurezza nazionali, assistiamo all’innalzamento del livello del mare e a inverni molto asciutti seguiti da episodi sempre più frequenti di precipitazioni “anomale” nel mese di agosto e, negli ultimi anni, come conseguenza delle pesanti piogge in Svizzera e in Germania, il livello del Reno è particolarmente alto. Quest’acqua finisce tutta qui»27

Tenere i riflettori accesi sull’ambiente

«Avere a che fare, in determinati periodi, con maggiori quantità d’acqua proveniente dall’estero o con livelli del mare più alti sottintende evidentemente un intervento di portata internazionale. Facciamo parte di una rete internazionale e dalle nostre esperienze condivise sappiamo che se l’acqua non viene menzionata ogni giorno dai mezzi di informazione, il nostro lavoro diventa più difficile», dichiara Sonja. «Per me, l’attività che svolgiamo su scala locale è legata a quella nazionale e internazionale», prosegue. «Da un lato, il nostro personale controlla sul campo briglie e corsi d’acqua… accerta che siano puliti e che il livello dell’acqua corrisponda alle esigenze dei nostri clienti (agricoltori, cittadini, organizzazioni per la salvaguardia della natura). Dall’altro lato, abbiamo grandi progetti che, dai principi alti e astratti della DQA dell’Unione europea, vengono tradotti in protocolli reali affinché Joep possa operare sul campo. Oggi apprezzo questo aspetto locale. Un tempo giravo il mondo per lavoro operando a un livello strategico, a un livello elevato, con una scarsa comprensione della necessità che le strutture locali funzionino bene». «Sedendo con i ministri e discutendo di strategia idrica globale, è molto difficile restare con i piedi per terra. È stato uno dei maggiori problemi per i paesi in via di sviluppo: tante strategie di alto livello, poca comprensione, poche infrastrutture, pochi investimenti sul campo». «Ora che la questione idrica diventa una realtà pressante per l’Europa, anche noi abbiamo bisogno di adottare un approccio realistico a livello locale insieme a progetti più ambiziosi», aggiunge Paula. «Ho a disposizione otto persone che ogni giorno controllano le chiuse. Vivono qui, conoscono la comunità e comprendono le specificità locali. Senza questi requisiti, il progetto è destinato a fallire e a essere sostituito da un altro. Dobbiamo tutti lavorare per questo,  fare la differenza a livello locale, offrendo alle persone gli strumenti per partecipare alla gestione delle questioni idriche che li riguardano», continua. «Anche il livello locale è fondamentale», concorda Sonja. «La governance, ovvero l’approccio funzionale e decentralizzato, può assumere svariate forme ed è questo che lo fa funzionare. Dobbiamo soltanto coinvolgere nuovamente le persone e spiegare loro che corriamo dei rischi e che abbiamo bisogno della loro partecipazione», dichiara ancora.

Una crisi di governance

Benché alcune aree del mondo rischino di restare senz’acqua mentre altre sono a rischio di inondazioni, parlare di crisi idrica globale è inesatto. Piuttosto, siamo di fronte a una crisi di governance del patrimonio idrico. Per soddisfare le esigenze di una società efficiente sotto il profilo delle risorse e a basse emissioni di carbonio, per sostenere lo sviluppo umano ed economico e per preservare le funzioni essenziali degli ecosistemi acquatici, è necessario dare voce ai nostri ecosistemi, generalmente silenziosi, e dare loro una lobby. Parliamo di scelte politiche, scelte che devono basarsi sul giusto quadro governativo e istituzionale. Oggi, la storia del bambino che ha tappato la diga con un dito viene spesso utilizzata per descrivere approcci diversi per gestire una situazione. Può riferirsi a un intervento di modesto rilievo per evitare una catastrofe, oppure può significare tentare di curare i sintomi anziché le cause di un problema. La realtà è che un gestione idrica efficiente, come la gestione di molte altre risorse, richiederà soluzioni fondate sulla combinazione di interventi e decisioni a vari livelli. Gli impegni e gli obiettivi globali possono tradursi in traguardi concreti soltanto se persone come Joep e Paula sono pronti a realizzarli.28

La rivoluzione informatica

Talvolta i satelliti sono in grado di svolgere più compiti rispetto a quelli per cui sono stati costruiti. Insieme a due colleghi  dotati di grande creatività, Ramon Hanssen, docente di osservazione terrestre al politecnico di Delft, ha sviluppato un sistema per monitorare i 17.000 chilometri di dighe dei Paesi Bassi. Di questi, 5.000 proteggono la popolazione neerlandese dal mare e dai principali corsi d’acqua. Sarebbe impossibile ispezionarli tutti sul campo con la medesima frequenza. Sarebbe decisamente troppo costoso. Utilizzando le immagini radar inviate da Envisat ed ERS-2, due satelliti europei per l’osservazione della Terra, la direzione generale per le opere pubbliche e la gestione idrica (Rijkswaterstaat) ha la possibilità di controllare le dighe ogni giorno. Questo sistema è in grado di captare anche la più piccola variazione, grazie a misurazioni millimetriche. Hanssen ha battezzato questo concetto «Hansje Brinker» dal nome del bambino che secondo la leggenda ha tappato la diga con un dito per proteggere i Paesi Bassi dall’inondazione. Significa forse che le ispezioni eseguite dalla direzione generale non sono più necessarie? Secondo il professor Hanssen, non è così. Il radar segnala le aree critiche in base alle variazioni e un ispettore inserisce le coordinate corrispondenti nel suo sistema di navigazione, un’altra applicazione della tecnologia spaziale, per recarsi sul campo ed eseguire ricerche più dettagliate.

Fonte: EEA (agenzia europea ambiente)

8. È una mossa commerciale?

Dalle piccole imprese alle multinazionali, molte aziende sono alla ricerca di un modo per conservare o aumentare le proprie quote di mercato. 21

In un’epoca di concorrenza globale agguerrita, il perseguimento della sostenibilità suggerisce ben più di un «rinverdimento» dell’immagine aziendale e di un taglio dei costi di produzione. Potrebbe comportare lo sviluppo di nuovi rami di attività. L’invasione delle grandi scimmie probabilmente non compariva in cima alla lista dei rischi aziendali di Unilever. Eppure, il 21 aprile 2008, la sede centrale di Londra e gli uffici del Merseyside, di Roma e di Rotterdam di Unilever sono stati invasi dagli attivisti di Greenpeace travestiti da oranghi. Gli attivisti protestavano contro i danni provocati alle foreste pluviali tropicali in Indonesia dalla produzione di olio di palma, utilizzato in molti prodotti Unilever. A poca distanza dal blitz, l’azienda ha annunciato che entro il 2015 avrebbe utilizzato solo olio di palma proveniente da fonti «sostenibili». Da allora, l’azienda ha predisposto un piano per porre la sostenibilità al centro delle sue pratiche aziendali. Molteplici e svariati sono i motivi che potrebbero spingere una multinazionale ad adottare pratiche più sostenibili. Possono essere legati all’immagine aziendale di una società o all’immagine dei suoi marchi. Una richiesta di sostenibilità potrebbe anche provenire dagli investitori, magari poco inclini a dare il loro denaro ad aziende incuranti dei rischi del cambiamento climatico o non interessate a trarre vantaggio dall’ecoinnovazione. Karen Hamilton, vicepresidente per la sostenibilità di Unilever, osserva: «Non vediamo alcun conflitto tra crescita e sostenibilità. Anzi, a  chiedercelo è un numero sempre crescente di consumatori». Oppure, semplicemente, l’adozione di pratiche sostenibili può essere una mossa commerciale. Le aziende potrebbero acquisire un vantaggio competitivo e accrescere la propria quota di mercato. Potrebbero anche derivarne nuove opportunità commerciali per gli eco imprenditori innovativi che rispondano a una domanda di prodotti «verdi» in crescita. Karen aggiunge: «La sostenibilità comporta anche risparmi sui costi. Se possiamo ridurre gli imballaggi, possiamo ridurre il consumo energetico degli impianti, risparmiando denaro e aumentando la redditività».

22

Dove cercare nuove idee

In virtù delle sue dimensioni, una grande multinazionale che introduce pratiche «verdi» può fare la differenza. Tenderà a spingere le aziende sue pari a fare altrettanto. Fondato alla vigilia del vertice di Rio del 1992 per dare voce al settore imprenditoriale, il World Business Council for Sustainable Development (WBCSD, Consiglio mondiale delle imprese per uno sviluppo sostenibile) è una piattaforma istituita per promuovere la sostenibilità delle imprese. La relazione «Vision 2050» (Visione 2050) del WBCSD, elaborata in collaborazione con i maggiori esperti e dirigenti d’impresa, delinea le novità irrinunciabili che il settore delle imprese dovrebbe introdurre nei prossimi decenni per realizzare la sostenibilità globale. In altre parole, è un appello alla sostenibilità che viene dall’interno. I punti principali identificati dal WBCSD rispecchiano molti degli obiettivi dei responsabili politici: far sì che i prezzi di mercato includano i costi del danno ambientale; individuare soluzioni efficaci per produrre più cibo senza utilizzare più terreno o più acqua; porre fine alla deforestazione; ridurre le emissioni di carbonio a livello mondiale attuando la transizione verso l’energia verde; utilizzare l’energia in modo efficiente in tutti i settori, trasporti inclusi. Il Carbon Disclosure Project (CDP, Progetto di rivelazione del carbonio) è un’altra iniziativa intesa a promuovere la sostenibilità nel settore delle imprese. Si tratta di un’organizzazione no-profit nata allo scopo di ridurre le emissioni di gas a effetto serra e l’utilizzo di acqua da parte di imprese e centri urbani. Il CDP aiuta inoltre gli investitori a valutare i rischi d’impresa collegati all’ambiente, quali il cambiamento climatico, la scarsità d’acqua, le alluvioni e l’inquinamento, o semplicemente la carenza di materie prime. Soprattutto nel contesto dell’attuale crisi finanziaria, gli investitori rivestono un ruolo importante nel decidere quali aziende debbano sopravvivere.

Le soluzioni passepartout non esistono                  

Resta una domanda: in che modo un’azienda può tradurre la sostenibilità nella gestione d’impresa? Non esiste una soluzione valida per tutti, ma esistono numerosi servizi di supporto e di consulenza. Piattaforme dedicate alle imprese sostenibili, come il World Business Council for Sustainable Development e il Carbon Disclosure Project, assistono le imprese che intendono porsi all’avanguardia. Vi sono inoltre raccomandazioni più mirate, come gli orientamenti dell’OCSE per le imprese multinazionali allegati alla dichiarazione dell’OCSE sugli investimenti internazionali e le imprese multinazionali. Tali orientamenti enunciano norme e principi volontari per condurre attività d’impresa in modo responsabile destinati alle multinazionali operanti nei paesi che hanno aderito alla dichiarazione. Tuttavia, i regimi esistenti hanno perlopiù carattere volontario e sono generalmente considerati nel più ampio contesto della responsabilità sociale delle imprese. Non sono solo gli alti dirigenti delle diverse aziende a guidare la transizione verso le pratiche sostenibili. I governi e gli enti pubblici in generale possono assecondare le aziende creando regole uguali per tutti e prevedendo incentivi. Può darsi che travestirsi da orango non sia sempre necessario, ma i consumatori e la società civile possono lanciare un segnale forte al settore privato semplicemente facendo vedere che c’è un interesse per i prodotti rispettosi dell’ambiente. Karen conferma: «I governi e la società civile devono sicuramente lavorare insieme. Le imprese in particolare possono fare la differenza nelle catene di approvvigionamento transfrontaliere e, naturalmente, nell’ordine di grandezza con cui raggiungono i consumatori».

Fonte: EEA (agenzia europea ambiente)

7. Pagare il prezzo «giusto»?

Le economie di molti paesi in via di sviluppo puntano sullo sfruttamento delle risorse naturali per affrancare le loro popolazioni dalla povertà, con un danno potenziale per i sistemi naturali da cui dipendono. 16

Spesso, le soluzioni a breve termine compromettono il benessere della popolazione sul lungo termine. Possono i governi aiutare i mercati a stabilire il prezzo «giusto» per i servizi della natura e influenzare le scelte economiche? Analizziamo cosa significa per il Burkina Faso utilizzare acqua per la produzione del cotone. A livello mondiale, oltre un miliardo di

persone vive in condizioni di «povertà estrema», ovvero con meno di 1,25 dollari USA al giorno secondo la definizione della Banca mondiale. Sebbene la percentuale di popolazione povera nel mondo sia diminuita notevolmente negli ultimi 30 anni, un numero significativo di paesi, molti dei quali africani, stentano a fare passi in avanti. In questi paesi, l’economia è spesso incentrata sullo sfruttamento delle risorse naturali: attività agropastorale, forestale, mineraria e così via. Di conseguenza, gli sforzi per stimolare la crescita economica e soddisfare le esigenze di popolazioni in rapida crescita possono mettere a dura prova gli ecosistemi. In molti casi, le risorse, come il cotone, vengono coltivate o estratte nei paesi in via di sviluppo ed esportate nelle aree più ricche, come l’Europa. Una simile realtà investe i consumatori del mondo industrializzato di un ruolo importante: aiutare «l’ultimo miliardo» a uscire dalla povertà o minarne ogni possibilità di successo danneggiando i sistemi naturali da cui queste persone dipendono.

L’«oro bianco»

In Burkina Faso, un paese arido, privo di sbocco sul mare ed estremamente povero, situato ai margini meridionali del Sahara, il cotone è un grande affare. Anzi, enorme. Con il rapido aumento della produzione degli ultimi anni, il Burkina

Faso è oggi il maggiore produttore di cotone del continente africano. L’«oro bianco», come è conosciuto nella regione,

rappresentava nel 2007 l’85% dei proventi delle esportazioni del paese e il 12% della produzione economica. Fatto fondamentale, i proventi derivanti dal cotone risultano estremamente dispersi. Il settore occupa tra il 15% e il 20% della forza lavoro, fornendo un reddito diretto a 1,5–2 milioni di persone. Come principale motore della crescita economica

dell’ultimo decennio ha generato un gettito fiscale in grado di finanziare interventi migliorativi in settori quali la sanità e

l’istruzione. Per la popolazione del Burkina Faso, i vantaggi della coltivazione del cotone son ben chiari. Spesso, i costi lo sono meno.

Breve glossario dell’acqua

L’impronta idrica e l’acqua virtuale sono due concetti che aiutano a capire quanta acqua consumiamo.17

L’impronta idrica è il volume di acqua dolce utilizzata per produrre i beni e i servizi consumati da una persona o da una comunità oppure realizzati da un’azienda. È costituita dalla somma di tre componenti. L’impronta idrica blu rappresenta il volume di acqua superficiale e sotterranea utilizzato per produrre beni e servizi. L’impronta idrica verde è la quantità di acqua piovana utilizzata durante la produzione. L’impronta idrica grigia è costituita dal volume di acqua inquinata dalla produzione. Qualsiasi bene o servizio esportato comporta anche l’esportazione della cosiddetta «acqua virtuale», ovvero l’acqua utilizzata per produrre il bene o il servizio in questione. Si parla di esportazione di acqua virtuale quando un bene o un servizio viene consumato al di fuori dei confini del bacino idrografico da cui l’acqua è prelevata. Per i paesi o i territori importatori, l’importazione di «acqua virtuale» consente di utilizzare le risorse idriche interne per altre finalità, che possono essere di grande utilità per i paesi in cui l’acqua scarseggia. Purtroppo, molti paesi esportatori di acqua virtuale sono in realtà paesi poveri d’acqua ma dal clima soleggiato, che ben si addice alla produzione agricola. Nei paesi carenti d’acqua, l’esportazione di acqua virtuale comporta ulteriori pressioni sulle

risorse idriche e spesso impone costi sociali ed economici in quanto l’insufficiente disponibilità d’acqua viene destinata ad altre

attività e ad altre esigenze.

Fonte: Water Footprint Network (Rete dell’impronta idrica)

 

Un quarto degli abitanti non ha accesso all’acqua potabile. Per oltre l’80% si tratta di coltivatori che praticano l’agricoltura di sussistenza, per i quali la capacità di soddisfare i bisogni primari, quali cibo e rifugio, dipende dall’acqua. Inoltre, secondo l’Organizzazione meteorologica mondiale, la domanda annua di risorse idriche supera del 10–22% la disponibilità. In tale contesto, la forte crescita della produzione di cotone degli ultimi anni appare rischiosa. Il cotone ha bisogno di molta acqua per crescere: richiede interventi di irrigazione durante la stagione secca e consuma molta più acqua di altre colture ampiamente diffuse. Destinare l’acqua alla produzione del cotone significa sottrarla ad altri possibili utilizzi. La maggior parte del raccolto viene esportata, il che significa che grandi quantità d’acqua vengono utilizzate per soddisfare la domanda di consumatori che vivono altrove. Questo processo è conosciuto sotto il nome di esportazione di «acqua virtuale». Una metà del cotone del Burkina Faso è

esportata in Cina, dove viene venduta alle filande locali e da lì alle ditte produttrici, che servono i mercati mondiali. Alla fine della catena di approvvigionamento, i consumatori di prodotti derivati dal cotone importano di fatto considerevoli volumi d’acqua, talvolta da aree del pianeta molto più aride. Nel caso del cotone, uno studio ha rivelato che l’84% dell’impronta idrica dell’Europa si colloca fuori dall’Europa. Per i paesi aridi, come il Burkina Faso, è generalmente preferibile importare prodotti a elevato consumo idrico, anziché esportarli. Dopo tutto, esportare «acqua virtuale» può significare che non ne rimanga a sufficienza per le popolazioni e

gli ecosistemi locali. Detto ciò, l’unico modo per capire se usare l’acqua per coltivare il cotone sia una buona soluzione per il Burkina Faso è valutare i costi e i benefici totali rispetto ad altri impieghi. Come tale, il concetto dell’acqua virtuale non dice quale sia il modo migliore di gestire l’acqua, anche se fornisce informazioni molto utili sull’impatto delle nostre scelte di produzione e consumo.

Più inquinamento, meno foreste

Il consumo idrico non è l’unico motivo di preoccupazione legato alla produzione di cotone in Burkina Faso. Di solito, la coltivazione del cotone comporta un uso massiccio di pesticidi. Infatti, il cotone corrisponde a ben il 16% dell’uso di pesticidi a livello mondiale, pur coprendo appena il 3% delle terre coltivate. Le ripercussioni sulle popolazioni e gli ecosistemi locali possono essere gravi. Tuttavia, finché i singoli coltivatori che utilizzano i pesticidi non percepiscono la totalità di questi effetti e finché, addirittura, non ne diventano consapevoli, le loro decisioni non potranno tenerne conto (per tale ragione, può essere importante istruire e informare gli

agricoltori locali sui pesticidi e sui loro effetti). L’acqua non è l’unica risorsa a essere utilizzata. Un’altra risorsa fondamentale è la terra. Come quasi dappertutto, in Burkina Faso il territorio può essere utilizzato in molti modi diversi. I suoi abitanti devono forse gran parte della ricchezza del paese alla destinazione della terra alla coltivazione del cotone?18

«A soli otto anni, Modachirou Inoussa già aiutava i genitori sui campi di cotone. Il 29 luglio 2000 Modachirou aveva lavorato duramente ed era corso a casa assetato. Lungo il tragitto aveva trovato un recipiente vuoto, con cui aveva raccolto da un canale un po’ d’acqua da bere. Quella sera non fece ritorno a casa. Il suo corpo fu ritrovato dagli abitanti del villaggio accanto a un flacone vuoto di Callisulfan».

Casi di avvelenamento da endosulfan in Africa occidentale, riportato da PAN UK

(Pesticide Action Network) Rete d’Azione sui Pesticidi, Regno Unito, 200619

Ciò che è bene per uno può non essere bene per tutti

Questa non è una domanda inutile. La superficie forestale del Burkina Faso si è ridotta del 18% nel periodo 1990–2010, in parte a causa dell’espansione agricola, e il tasso di diminuzione è in crescita. In Burkina Faso, un proprietario privato di un terreno forestale può preferire produrre il cotone perché vendere il legno (o utilizzarlo come combustibile) e coltivare la terra è più redditizio che preservare la foresta. Questo però non è necessariamente il risultato migliore per il paese, per la sua popolazione e per i suoi ecosistemi. La foresta fornisce agli esseri umani, vicini e lontani, vantaggi di gran lunga superiori al valore della legna. Costituiscono un habitat per la biodiversità, prevengono l’erosione del terreno, assorbono biossido di carbonio, offrono opportunità ricreative e così via. Se la società nel suo insieme dovesse decidere quale uso fare della terra, e se potesse decidere sulla base di una valutazione completa dei costi e dei benefici delle diverse opzioni, probabilmente non esaurirebbe tutta la terra e tutta l’acqua

solo per produrre cotone. La differenza tra i benefici e i costi per i singoli e per la società è di fondamentale importanza. Nel rispondere ad alcune domande chiave (quanta acqua usare per coltivare il cotone, quanti pesticidi, quanta terra) gli agricoltori di tutto il mondo decidono sulla base dei relativi costi e benefici. Tuttavia, mentre può beneficiare appieno della vendita del cotone,

l’agricoltore di solito non ne sostiene tutti i costi. La spesa per acquistare i pesticidi, ad esempio, spesso appare irrisoria di fronte

agli effetti che i pesticidi hanno sulla salute. In questo modo, i costi gravano su altri, tra cui le future generazioni. I problemi nascono dal fatto che l’agricoltore, come del resto tutti noi, fonda le sue decisioni sull’interesse personale. Tale distorsione si trasmette attraverso i mercati globali. I prezzi sostenuti da commercianti, aziende tessili e, in ultima analisi, dai consumatori danno una rappresentazione falsata dei costi e dei benefici derivanti dall’utilizzo delle risorse e dalla produzione delle merci. È un problema serio. In buona parte del mondo, i mercati e i prezzi servono a guidare le nostre decisioni; di conseguenza, se i prezzi forniscono un’immagine fuorviante dell’impatto della produzione e del consumo, le decisioni che prenderemo saranno sbagliate. La storia ci insegna che i mercati possono costituire un meccanismo molto efficace per orientare le nostre decisioni sull’utilizzo delle risorse e sulla produzione e per aumentare al massimo la prosperità. Quando però i prezzi sono sbagliati, i mercati falliscono.h2o

«Il 99% dei coltivatori di cotone nel mondo vive in aree in via di sviluppo. Ciò significa che i pesticidi vengono utilizzati

dove il livello di analfabetismo è elevato e dove il tema della sicurezza è poco sentito, con rischi sia per l’ambiente che per

le vite umane».

Steve Trent, direttore di Fondazione per la giustizia ambientale (Environmental Justice Foundation)

Quando i mercati falliscono: correzioni e vincoli

Cosa possiamo fare? In una certa misura, i governi possono intervenire per correggere i difetti del mercato. Possono imporre norme e tasse sull’utilizzo dell’acqua e dei pesticidi, in modo tale che gli agricoltori ne utilizzino meno oppure trovino alternative meno dannose. Per contro, possono prevedere pagamenti destinati ai proprietari dei terreni forestali tali da rispecchiare benefici che le foreste forniscono alla società a livello nazionale e internazionale, garantendo in questo modo una fonte alternativa di reddito. Il segreto sta nell’allineare gli incentivi rivolti ai singoli con quelli destinati alla società nel suo insieme. È inoltre importante fornire informazioni ai consumatori per completare quelle veicolate dal prezzo. In molti paesi, sono sempre più diffuse le etichette che spiegano come viene prodotto un bene, così come le campagne promosse dai gruppi di interesse per sensibilizzare e migliorare la comprensione di queste tematiche. Molti di noi sarebbero disposti a pagare di più o a consumare di meno se comprendessero la portata dell’impatto delle nostre scelte. In alcuni casi, i governi devono fare di più e, oltre a correggere il mercato, sono effettivamente chiamati a limitarne il ruolo di distribuzione delle risorse. Gli esseri umani come gli ecosistemi hanno bisogno dell’acqua per vivere e prosperare. Di fatto, si potrebbe argomentare che le persone hanno diritto all’acqua in quantità sufficiente per dissetarsi e per avere il cibo, i servizi igienici e un ambiente salubre. I governi potrebbero quindi essere tenuti a garantire che tali esigenze siano soddisfatte prima di ricorrere al mercato per spartire il resto. Tornando al Burkina Faso, il governo e i partner internazionali puntano a soddisfare il bisogno primario dell’accesso all’acqua potabile. Benché la realtà non sia ancora

questa per un quarto della popolazione, la situazione attuale rappresenta un netto miglioramento rispetto a 20 anni fa, quando il 60% degli abitanti non aveva accesso all’acqua.20

Cambiare gli incentivi

A livello globale, sono in atto interventi per correggere e porre vincoli sui mercati aperti, traendone al contempo numerosi benefici.

In questo momento, tuttavia, i prezzi del mercato forniscono spesso informazioni fuorvianti, con il risultato che produttori e consumatori prendono decisioni errate. Se i mercati funzionassero in maniera adeguata e se i prezzi rispecchiassero appieno costi e benefici delle nostre azioni, continuerebbe il Burkina Faso a produrre cotone? Benché sia difficile saperlo con certezza, sembra assai probabile. Per un paese come il Burkina Faso, estremamente povero, privo di sbocchi sul mare e carente di risorse, non esistono strade agevoli per raggiungere la prosperità. Il settore del cotone offre quantomeno ricavi considerevoli, fornendo potenzialmente una piattaforma di sviluppo economico e livelli di vita migliori. Tuttavia, continuare a produrre cotone non deve significare continuare ad applicare tecniche produttive a elevato consumo idrico e di pesticidi. Né continuare a ridurre le aree forestali. I metodi alternativi, quali la produzione di cotone biologico, possono ridurre il consumo di acqua ed escludere del tutto l’utilizzo dei pesticidi. I costi diretti della coltivazione del cotone biologico sono superiori, il che comporta prezzi più alti pagati dai consumatori per i prodotti in cotone, ma sono più che compensati dalla riduzione dei costi indiretti a carico dei coltivatori e delle loro comunità.

A noi la scelta

I responsabili politici hanno certamente un ruolo da svolgere nel far sì che i mercati funzionino correttamente, in modo tale che

i segnali dei prezzi incoraggino l’assunzione di decisioni sostenibili. Ma non sono solo loro a dover intervenire: anche una cittadinanza informata può fare la differenza. Disporre di catene di approvvigionamento globali implica che le decisioni dei produttori, dei rivenditori e dei consumatori in Europa possano condizionare in modo significativo il benessere di popolazioni in territori remoti come il Burkina Faso. Tale condizionamento può includere non soltanto la creazione di occupazione e di reddito, ma anche lo sfruttamento eccessivo di risorse idriche limitate e l’avvelenamento delle comunità e degli ecosistemi locali. In definitiva, i consumatori hanno il potere di decidere. Proprio come i responsabili politici possono orientare i nostri consumi influenzando i prezzi, così i consumatori possono inviare segnali ai produttori, chiedendo un cotone coltivato in modo sostenibile. È un aspetto che vale la pena di considerare la prossima volta che acquistiamo un paio di jeans.

Fonte: EEA (agenzia europea ambiente)

6. I rifiuti in Groenlandia

Dalle città più popolose agli insediamenti più remoti, ovunque viviamo, generiamo rifiuti. Avanzi di cibo, rifiuti elettronici,  batterie, carta, bottiglie di plastica, vestiti, vecchi mobili: tutte queste cose vanno smaltite. 14

Alcune finiscono riutilizzate o riciclate; altre vengono bruciate per produrre energia oppure avviate alle discariche. Non  esiste un unico modo di gestire i rifiuti che vada bene ovunque. Il modo in cui gestiamo i rifiuti deve tener conto delle condizioni locali. Dopo tutto, i rifiuti nascono come una questione locale. Considerando la scarsa densità di popolazione, le lunghe distanze fra i centri abitati e l’assenza di infrastrutture stradali, vediamo come la Groenlandia affronta la questione della gestione dei rifiuti.

Intervista a Per Ravn Hermansen

Per Ravn Hermansen vive a Nuuk, la capitale della Groenlandia. Vi si è trasferito dalla Danimarca per occuparsi della gestione dei rifiuti presso il ministero degli Interni, della Natura e dell’Ambiente groenlandese.

Come si vive in Groenlandia?

«Vivere a Nuuk non è molto diverso dal vivere in qualsiasi altra città di medie dimensioni, come lo sono le città danesi. Ci sono gli stessi tipi di negozi e gli stessi servizi. Nuuk ha circa 15.000 abitanti. Mentre qui la popolazione parla sia groenlandese che danese, gli abitanti dei piccoli centri conoscono quasi esclusivamente il groenlandese. Vivo qui dal 1999 e penso che le persone consumino lo stesso tipo di prodotti che nel resto del mondo, come ad esempio i computer e i telefonini. Penso inoltre che le persone stiano diventando più consapevoli del problema dei rifiuti.»

Dove risiede l’unicità del problema dei rifiuti in Groenlandia?

«In Groenlandia vivono circa 55.000 persone e, come avviene nel resto del mondo, le persone generano rifiuti. Sotto molti punti di vista, il «problema» dei rifiuti in Groenlandia è piuttosto banale. Le aziende e le famiglie groenlandesi generano vari tipi di rifiuti e quello che dobbiamo fare è gestirli in modo tale da non recare danno all’ambiente. Per altri versi, il problema dei rifiuti in Groenlandia è unico nel suo genere per via dell’estensione del suo territorio, o meglio della dispersione geografica degli insediamenti. In Groenlandia ci sono sei città relativamente grandi, 11 centri minori e una sessantina di insediamenti fra i 30 e i 300 abitanti, disseminati lungo la costa. La maggioranza della popolazione è concentrata sulla costa occidentale, ma si trovano alcuni piccoli insediamenti e centri abitati anche sulla costa orientale.

Solo sei città dispongono di impianti di incenerimento, il che non è sufficiente a garantire un trattamento adeguato in termini ambientali dei rifiuti inceneribili. Inoltre, non esistono strade di collegamento fra le città e gli insediamenti e quindi non è facile trasportare i rifiuti agli inceneritori. Le merci vengono trasportate principalmente via mare. Al momento, abbiamo solo una vaga idea della quantità di rifiuti urbani prodotti in Groenlandia e riteniamo che sia in aumento. Una metà degli insediamenti dispone di quelli che definirei «forni inceneritori»; per il resto, abbiamo solo discariche e roghi all’aria aperta.15

In ultima analisi, penso che tutti i problemi in materia di rifiuti abbiano alcuni elementi in comune ma che ciascuno sia

unico nel suo genere. Quella dei rifiuti è una questione locale con ripercussioni più ampie. Qualsiasi soluzione deve tener conto di questo dualismo.»

Cosa succede ai rifiuti pericolosi e ai rifiuti elettronici?

«Gli impianti delle maggiori città disassemblano le apparecchiature elettriche ed elettroniche e gestiscono i rifiuti pericolosi, che sono quindi stoccati in loco in attesa di essere trasferiti in Danimarca. La Groenlandia importa ogni genere di merce, inclusi i generi alimentari, i capi di abbigliamento e gli autoveicoli, in gran parte in arrivo via mare da Aalborg. I rifiuti pericolosi e quelli elettrici ed elettronici sono trasferiti sulle navi che fanno ritorno in Danimarca.»

Ultimamente le multinazionali minerarie sono alla ricerca di riserve petrolifere o minerarie ancora intatte. Cosa ne è dei

rifiuti minerari?

«In Groenlandia applichiamo la politica «dello sportello unico», che consente alle imprese estrattive di ottenere dallo stesso ente pubblico tutti i permessi necessari. Ciò significa che le domande di autorizzazione, in cui sono contemplati

tutti gli aspetti dell’attività, inclusi i rifiuti, devono essere presentate all’Ufficio dei minerali e del petrolio. Quasi tutte le attività delle imprese minerarie si svolgono lontano dalle città e dai centri abitati. Per quanto riguarda i rifiuti inceneribili, le imprese possono stipulare accordi con gli enti locali per avere accesso agli impianti di incenerimento. Questo aumento della domanda esercita ulteriori pressioni sulla capacità di incenerimento locale.»

Come state affrontando questo problema?

«Una delle opzioni attualmente sul tavolo consiste nel costruire impianti di incenerimento regionali e nel trasferire lì i rifiuti. È chiaro che non possiamo costruire impianti di trattamento dei rifiuti in ogni città. Stiamo anche valutando la possibilità di produrre calore, di riscaldare le case bruciando rifiuti. Nelle città più piccole, abbiamo dato il via alla costruzione di impianti per lo smaltimento dei rifiuti elettrici ed elettronici e la gestione dei rifiuti pericolosi. Negli insediamenti minori stiamo invece mettendo a disposizione alcuni contenitori per la raccolta dei rifiuti elettronici e pericolosi, che possono essere successivamente trasportati agli impianti di smaltimento delle varie città. Sono attualmente in corso due progetti pilota per il trasferimento dei rifiuti inceneribili nelle città dotate di impianti di incenerimento. Il governo groenlandese dispone di un piano nazionale di gestione dei rifiuti e le attività a cui mi riferivo fanno parte di Fonte: EEA (agenzia europea ambiente)

questo piano.»

Fonte: EEA (agenzia europea ambiente)

5. ZOOM SU…Gli sprechi alimentari

Circa un terzo del cibo prodotto in tutto il mondo finisce perso o buttato. Quando più di un miliardo di persone nel mondo vanno a dormire affamate, è impossibile non chiedersi cosa possiamo fare.12

Tuttavia, lo spreco alimentare non rappresenta soltanto un’occasione mancata per sfamare gli affamati. Rappresenta una perdita sostanziale di altre risorse, fra cui la terra, l’acqua e l’energia, ma anche il lavoro. Ricchi o poveri, giovani o vecchi, abbiamo tutti bisogno di mangiare. Il cibo è molto più che un nutrimento e va ben al di là di una ricca varietà di sapori in bocca. Più di 4 miliardi di persone dipendono da tre colture di base: riso, mais e frumento. Questi tre alimenti forniscono i due terzi del nostro apporto energetico. Poiché i vegetali commestibili sono oltre 50.000, il nostro menù di tutti i giorni appare estremamente monotono dato che alla nostra alimentazione contribuiscono solo poche centinaia di specie. Dato che miliardi di persone dipendono da poche colture di base, l’aumento dei prezzi dei generi alimentari fra il 2006 e il 2008 si è fatto sentire in tutto il mondo. Benché i paesi sviluppati siano generalmente riusciti a dare da mangiare alla popolazione, alcune zone dell’Africa hanno dovuto fare i conti con la fame. La causa non è solo il fallimento del mercato. Il cambiamento climatico va ad aggiungersi alle pressioni sulla sicurezza alimentare e alcune regioni faticano più di altre. Siccità, incendi e alluvioni compromettono direttamente la capacità produttiva. Purtroppo, il cambiamento climatico interessa i paesi più vulnerabili e che più difficilmente dispongono degli strumenti necessari per adeguarsi. In un certo senso, tuttavia, il cibo non è altro che un «bene» come tanti. Per produrlo servono risorse, come la terra e l’acqua. Come avviene per altri prodotti sul mercato, viene consumato o utilizzato, e può essere sprecato. Una quantità notevole di cibo viene buttata via, soprattutto nei paesi sviluppati, e ciò significa buttare anche le risorse utilizzate per produrlo. Il settore alimentare e lo spreco alimentare figurano fra i punti chiave evidenziati nella «Tabella di marcia verso un’Europa efficiente nell’impiego delle risorse» elaborata dalla Commissione europea nel settembre 2011. Benché sia ampiamente riconosciuto che il cibo che produciamo viene in parte sprecato, è piuttosto difficile proporre una stima precisa. La Commissione europea calcola che nella sola UE ogni anno buttiamo 90 milioni di tonnellate di cibo, equivalenti a 180 kg a testa. Molto di questo cibo è ancora idoneo al consumo umano13

Non solo cibo

Gli impatti ambientali derivanti dallo spreco alimentare non si limitano all’utilizzo del territorio e dell’acqua. Secondo la  tabella di marcia della Commissione europea, la catena di valore dei prodotti alimentari e delle bevande nell’UE è all’origine del 17% delle emissioni dirette di gas a effetto serra e del 28% dell’uso di risorse naturali. Tristram Stuart, scrittore e uno dei principali organizzatori dell’iniziativa denominata «Feeding the 5k», un pranzo per 5.000 persone a Trafalgar Square a Londra, ritiene che la maggior parte dei paesi ricchi butti via fra un terzo e la metà di tutto il cibo che ha a disposizione. «Non è soltanto un problema del mondo ricco. I paesi in via di sviluppo sono afflitti da livelli di spreco alimentare talvolta pari a quelli dei paesi ricchi, ma per ragioni molto diverse. L’assenza di infrastrutture agricole adeguate, come le tecnologie post-raccolto, è la prima responsabile. Si può stimare che almeno un terzo di tutti i prodotti alimentari del mondo venga gettato via», afferma Tristram. Lo spreco alimentare si verifica in tutte le fasi della catena di produzione e di approvvigionamento, così come nella fase del consumo. E le ragioni possono essere molteplici. Una parte dello spreco alimentare deriva dalle disposizioni di legge, spesso poste in essere a tutela della salute umana. Un’altra parte può essere collegata alle preferenze e alle abitudini dei consumatori. Occorre analizzare e prendere in considerazione tutte le diverse fasi e le diverse ragioni al fine di ridurre lo spreco alimentare. La tabella di marcia della Commissione europea sollecita «sforzi congiunti di agricoltori, operatori dell’industria alimentare, rivenditori e consumatori e l’impiego di tecniche di produzione che fanno un uso efficiente delle risorse, così come scelte alimentari sostenibili». L’obiettivo europeo è chiaro: dimezzare lo spreco di alimenti commestibili nell’UE entro il 2020. Alcuni deputati del Parlamento europeo hanno chiesto che il 2013 sia proclamato «Anno europeo contro gli sprechi alimentari».

«Non esiste una formula magica. Ogni singolo problema è diverso e richiede una soluzione diversa», afferma Tristram.

E aggiunge: «La bellissima notizia è che abbiamo la possibilità di ridurre il nostro impatto ambientale e che non c’è motivo per cui debba essere un sacrificio. Non si tratta di chiedere alla gente di prendere meno aerei, di mangiare meno carne o di usare meno l’auto, tutte cose che forse dovremo anche fare. In realtà si tratta di un’opportunità. Dobbiamo semplicemente smettere di buttare via il cibo e imparare ad apprezzarlo».

Fonte: EEA (agenzia europea ambiente)

 

4. Dalla miniera ai rifiuti, e oltre

Praticamente qualsiasi cosa consumiamo e produciamo ha un impatto sull’ambiente. Quando nella vita di tutti i giorni scegliamo di acquistare determinati beni e servizi, spesso non pensiamo a quella che è la loro «impronta» sull’ambiente. Il prezzo di vendita difficilmente rispecchia il costo reale. Ci sono però molte cose che possiamo fare per rendere più verdi i nostri consumi e la nostra produzione. 8

Per preparare una tazzina di caffè nei Paesi Bassi, servono 140 litri d’acqua. Per la maggior parte, sono utilizzati per coltivare la pianta del caffè. Ancor più sorprendente è che per produrre un chilo di carne bovina servono in medi 15.400 litri d’acqua.

Fonte: Water Footprint Network (Rete dell’impronta idrica)11

A maggio 2011, l’Apple Store di Fifth Avenue a New York è stato assalito dai clienti accorsi da ogni parte del mondo per acquistare il nuovo iPad2. Appena consegnati, gli articoli sparivano nel giro di poche ore. Il punto vendita di New York è stato fra quelli fortunati. Molti negozi Apple nel mondo si sono dovuti limitare a prendere gli ordini e hanno ricevuto la

merce settimane dopo. Quel ritardo non era dovuto a carenze nella pianificazione commerciale o a una campagna di marketing troppo azzeccata. È stato causato da una serie di catastrofi dall’altra parte del pianeta. Cinque dei principali componenti dell’iPad2 venivano prodotti in Giappone quando si è verificato il terremoto dell’11 marzo 2011. La  produzione di alcuni di questi componenti è stata facilmente trasferita in Corea del Sud o negli Stati Uniti, ma non quella della bussola digitale. Uno dei principali produttori sorgeva nel raggio di 20 km dai reattori di Fukushima e ha dovuto chiudere lo stabilimento.

I flussi di risorse destinate ad alimentare le linee di produzione

In un mondo interconnesso come il nostro, il viaggio di molti dispositivi elettronici parte da una miniera, generalmente in un paese in via di sviluppo, e da un centro di sviluppo del prodotto, perlopiù in un paese sviluppato. Oggi, la produzione di computer portatili, telefoni cellulari, automobili e fotocamere digitali si serve delle cosiddette «terre rare», come il neodimio, il lantanio e il cerio. Benché molti paesi dispongano di riserve non sfruttate, l’estrazione è costosa e in alcuni

casi rilascia sostanze tossiche e radioattive. Dopo l’estrazione, le risorse materiali sono generalmente trasportate presso un centro di trattamento e trasformate nelle diverse componenti del prodotto, che a loro volta vengono inviate ad altri impianti per l’assemblaggio. Quando compriamo il nostro dispositivo, i suoi vari componenti hanno già viaggiato in tutto il mondo e, a ogni tappa del loro itinerario, hanno lasciato un’impronta sull’ambiente. Lo stesso vale per il cibo sulle nostre

tavole, per i mobili delle nostre case e per la benzina delle nostre auto. Per la maggior parte, i materiali e le risorse vengono estratti, trasformati in un bene o in un servizio di consumo e trasportati nelle nostre case, perlopiù di città. Fornire acqua alle famiglie europee, ad esempio, non significa soltanto averne estratta la quantità utilizzata da un corpo idrico. Perché l’acqua sia pronta all’uso, abbiamo bisogno delle infrastrutture e dell’energia per trasportarla, immagazzinarla, trattarla e riscaldarla. Una volta «utilizzata», abbiamo ancora bisogno di altre infrastrutture e di altra energia per smaltirla.

Tutti pronti a consumare

Parte dell’impatto ambientale dovuto ai nostri modelli e ai nostri livelli di consumo non è immediatamente visibile. Produrre energia elettrica per ricaricare il cellulare e conservare il cibo al freddo genera biossido di carbonio che viene

rilasciato nell’atmosfera e che a sua volta contribuisce al cambiamento climatico. I trasporti e gli stabilimenti industriali

emettono inquinanti atmosferici, fra cui gli ossidi di zolfo e di azoto, che sono dannosi per la salute umana. In estate, i milioni di vacanzieri in rotta verso sud mettono ulteriormente alla prova le località di villeggiatura che li ospitano. Oltre alle emissioni di gas a effetto serra derivanti da questi spostamenti, la loro necessità di alloggio alimenta la domanda di risorse materiali ed energia da parte del settore edile. L’aumento stagionale della popolazione locale comporta l’estrazione supplementare di acqua destinata agli impianti sanitari e per finalità ricreative durante l’arida stagione estiva. Comporta anche più acque reflue da trattare, più cibo da trasportare e più rifiuti da gestire. Malgrado l’incertezza sulla portata esatta del nostro impatto ambientale, è chiaro che gli attuali livelli e modelli di estrazione delle risorse non possono andare avanti. Molto semplicemente, disponiamo di quantità limitate di risorse vitali, come i terreni coltivabili e l’acqua. Quelli che lì per lì si presentano come problemi locali, si pensi alla scarsità d’acqua, alla conversione delle foreste in pascoli o all’emissione di inquinanti da uno stabilimento industriale, spesso possono facilmente diventare problemi di portata globale e sistemica che riguardano tutti noi. Un indicatore del consumo delle risorse è l’impronta ecologica, messa a punto dal Global Footprint Network. Fornisce una stima dei consumi dei paesi in termini di utilizzo del territorio a livello mondiale, incluso l’utilizzo indiretto per produrre beni e assorbire le emissioni di CO2. Secondo questa metodologia di calcolo, nel 2007 l’impronta di ogni essere umano corrispondeva a 2,7 ettari globali. Un valore di gran lunga superiore al dato di 1,8 ettari globali a disposizione di ciascuno di noi per sostenere i consumi senza mettere a rischio la capacità produttiva dell’ambiente (Global Footprint Network, 2012). Nei paesi sviluppati, il divario era ancora più evidente. I paesi dell’AEA consumavano 4,8 ettari globali pro capite, a fronte di una «biocapacità» disponibile pari a 2,1 a persona (Global Footprint Network, 2011).10

Consumo significa anche lavoro

La nostra smania e il nostro bisogno di consumare le risorse naturali è solo una faccia della medaglia. Costruire case vacanza in Spagna, coltivare pomodori nei Paesi Bassi, andare in vacanza in Thailandia vuole anche dire garantire un

posto di lavoro, un reddito e, in ultima analisi, una fonte di sostentamento e uno standard di vita migliore ai lavoratori del

settore edile, agli agricoltori e agli agenti di viaggio. Per molte persone nel mondo, avere un reddito più elevato significa poter soddisfare i bisogni primari. Tuttavia, non è facile definire cosa sia un «bisogno» e il concetto varia notevolmente a seconda delle percezioni culturali e dei livelli di reddito. Per chi lavora nelle miniere di terre rare della Mongolia interna in Cina, l’estrazione mineraria è sinonimo di sicurezza alimentare per la famiglia e di istruzione per i figli. Per gli operai giapponesi, può significare non soltanto cibo e istruzione, ma anche qualche settimana di vacanza in Europa. Agli occhi delle folle che accorrono all’Apple Store, il prodotto finito può rappresentare uno strumento professionale irrinunciabile per qualcuno o un gioco per il tempo libero per altri. Anche l’esigenza di svago è un bisogno dell’essere umano. Il suo impatto sull’ambiente dipende dal modo in cui soddisfiamo questo bisogno.

Dritti nel cestino

Il viaggio dei dispositivi elettronici, del cibo e dell’acqua che esce dai rubinetti non termina nelle nostre case. Conserviamo televisori e videocamere fintanto che sono di moda o sono compatibili con i nostri lettori DVD. In alcuni paesi dell’UE, circa un terzo del cibo acquistato viene gettato via. Per non parlare del cibo buttato prima ancora che venga acquistato. Ogni anno, nei 27 paesi dell’Unione europea produciamo 2,7 miliardi di tonnellate di rifiuti. Ma dove vanno a finire tutti questi rifiuti? La risposta sintetica è lontano dai nostri sguardi: alcuni rifiuti vengono effettivamente venduti, legalmente e illegalmente, sui mercati di tutto il mondo. La risposta lunga è molto più articolata: dipende da «cosa» si butta via e da «dove». Oltre un terzo del peso dei rifiuti generati nei 32 paesi dell’AEA proviene dall’attività di costruzione e demolizione, strettamente collegata ai periodi di espansione economica. Un altro quarto è rappresentato dai rifiuti dell’attività estrattiva. Benché, in ultima analisi, tutti i rifiuti provengano dai consumi umani, meno di un decimo del peso totale dei rifiuti deriva dall’ambiente domestico. La nostra conoscenza dei rifiuti è tanto incompleta quanto i dati relativi ai consumi, ma è chiaro che dobbiamo ancora impegnarci a fondo nella gestione dei rifiuti. In media, ogni cittadino dell’UE consuma 16–17 tonnellate di materiali l’anno, molti dei quali, prima o poi, diventano rifiuti. Questa cifra

salirebbe a 40–50 tonnellate a persona se si considerassero i materiali estratti inutilizzati (ad esempio lo strato di copertura di un giacimento) e il «bagaglio ecologico» delle importazioni (ovvero la quantità totale di risorse naturali prelevate dalla loro sede naturale). La normativa, fra cui le direttive dell’UE sulle discariche, sui veicoli fuori uso, sulle batterie, sugli imballaggi e sui rifiuti d’imballaggio, ha aiutato l’Unione europea a dirottare una quota maggiore dei rifiuti

urbani dalle discariche agli inceneritori e agli impianti di riciclo. Nel 2008, nell’UE è stato recuperato il 46% dei rifiuti solidi. Il resto è stato avviato agli inceneritori (5%) o alle discariche (49%).

Alla ricerca di un nuovo tipo di miniera d’oro

Gli elettrodomestici, i computer, gli impianti d’illuminazione e i telefoni contengono non solo sostanze pericolose che rappresentano una minaccia per l’ambiente, ma anche metalli di valore. Secondo le stime, nel 2005 gli apparecchi elettrici ed elettronici presenti sul mercato contenevano 450.000 tonnellate di rame e sette tonnellate d’oro, per un valore che nel febbraio 2011 la Borsa metalli di Londra avrebbe quotato a circa 2,8 miliardi di euro e 328 milioni di euro rispettivamente. Malgrado variazioni significative tra i paesi europei, oggi gli apparecchi elettronici gettati via vengono

raccolti e riutilizzati o riciclati solo in minima parte. Anche i metalli preziosi «smaltiti come rifiuti» hanno una dimensione globale. La Germania esporta ogni anno circa 100.000 autoveicoli usati, in partenza da Amburgo e diretti al di fuori dell’Unione europea, soprattutto Africa e Medio Oriente. Nel 2005, tali autoveicoli9

contenevano circa 6,25 tonnellate di metalli del gruppo del platino. Diversamente dall’UE, la maggior parte dei paesi importatori sono privi delle norme e delle capacità necessarie a demolire e riciclare autoveicoli usati. Ciò rappresenta

una perdita economica e porta inoltre a un ulteriore ricorso all’attività estrattiva, provocando danni ambientali evitabili,

spesso all’esterno dell’UE. Una migliore gestione dei rifiuti urbani offre notevoli benefici: trasformare i rifiuti in una risorsa preziosa, prevenire i danni ambientali, incluse le emissioni di gas a effetto serra, e ridurre la richiesta di nuove risorse.

Prendiamo ad esempio la carta. Nel 2006 abbiamo riciclato quasi il 70% della carta proveniente dai rifiuti urbani solidi,

equivalente a un quarto del consumo totale di prodotti cartacei. Innalzare il tasso di riciclo al 90% consentirebbe di soddisfare oltre un terzo della domanda attraverso il materiale riciclato. In questo modo si otterrebbe una riduzione della domanda di nuove risorse e della quantità di rifiuti cartacei inviati alle discariche o agli inceneritori, oltre a quella delle emissioni di gas a effetto serra.

Cosa possiamo fare?

A danneggiare l’ambiente non sono i consumi o la produzione in quanto tali. Si tratta piuttosto dell’impatto ambientale

di «ciò che consumiamo», dove e in quale quantità, e del «modo in cui produciamo». Dal livello locale a quello globale, i

responsabili politici, le imprese e la società civile sono tutti chiamati a partecipare all’impegno per rendere più verde

l’economia. L’innovazione tecnologica offre molte soluzioni. L’utilizzo di energia e trasporti puliti ha un impatto minore sull’ambiente e può soddisfare parte delle nostre esigenze, se non tutte. La tecnologia da sola, però, non basta. La soluzione non può passare solo per il riciclo e il reimpiego dei materiali, così da estrarre una minore quantità di risorse.

Non è possibile non consumare, ma possiamo farlo con un po’ di buon senso. Possiamo ricorrere ad alternative più pulite, rendere più verdi i nostri processi produttivi e imparare a trasformare i rifiuti in risorse. Servono certamente politiche e infrastrutture migliori e maggiori incentivi, ma tali strumenti bastano solo per coprire un tratto del percorso. La tappa finale del viaggio dipende dalle scelte di consumo. Indipendentemente dalla nostra estrazione ed età, le decisioni di ogni giorno di acquistare determinati beni e servizi influiscono su ciò che viene prodotto e sulle sue quantità. Anche i rivenditori possono condizionare la scelta dei prodotti che finiscono sugli scaffali e trasmettere la domanda di alternative sostenibili a monte della catena di approvvigionamento. Un istante di riflessione tra gli scaffali dei supermercati o davanti al cestino dell’immondizia può costituire un buon punto di partenza per la nostra personale transizione verso un modo di vita sostenibile. Posso usare gli avanzi di ieri invece di buttarli via? Posso prendere in prestito questo dispositivo anziché

acquistarlo? Dove posso riciclare il mio vecchio cellulare?…

Fonte: EEA (agenzia europea ambiente)

3.Vivere in una società dei consumi

Decenni di crescita relativamente stabile in Europa hanno trasformato il nostro modo di vivere. Produciamo e consumiamo una quantità maggiore di beni e servizi. Viaggiamo di più e viviamo più a lungo. Tuttavia, l’impatto ambientale delle attività economiche, sia nel proprio paese che all’estero, è cresciuto e si è fatto più visibile. La normativa in materia di ambiente, se attuata integralmente, porta a risultati concreti. Eppure, visti i cambiamenti degli ultimi vent’anni, possiamo dire che stiamo facendo del nostro meglio? Quando Carlos Sánchez è nato, nel 1989, nell’area metropolitana di Madrid vivevano quasi 5 milioni di persone. La sua famiglia abitava in un appartamento con due camere da letto nel centro della città; non avevano l’automobile, ma possedevano una televisione. All’epoca non erano gli unici spagnoli a non avere l’auto. Nel 1992, sei anni dopo l’adesione all’Unione europea, nel paese c’erano 332 auto ogni 1.000 abitanti. Quasi due decenni dopo, nel 2009, 480 spagnoli su 1.000 possedevano un’autovettura, appena sopra la media dell’Unione europea. Quando Carlos aveva cinque anni, la famiglia Sánchez acquistò l’appartamento adiacente al proprio e lo unì al primo. Quando ne aveva otto, i suoi acquistarono la prima automobile, ma si trattava di una macchina usata.4

Società che invecchiano

Non sono solo i mezzi di trasporto a essere cambiati. Anche le nostre società sono diverse. Tranne poche eccezioni, il numero di figli per donna non è cambiato in modo significativo nei paesi dell’UE negli ultimi 20 anni. Nel 1992 le donne spagnole partorivano in media 1,32 figli e nel 2010 il dato era leggermente aumentato, arrivando a 1,39, ben al di sotto della soglia di sostituzione generalmente accettata di 2,1 figli per donna. Il tasso di fertilità complessivo nell’UE a 27 era intorno a 1,5 nel 2009. Eppure, la popolazione dell’Unione europea è in crescita, soprattutto per via dell’immigrazione. Inoltre, viviamo più a lungo e meglio. Nel 2006 l’aspettativa di vita alla nascita nell’UE era di 76 anni per gli uomini e di 82 per le donne. Alla fine di ottobre 2011, la popolazione mondiale ha raggiunto quota 7 miliardi. Malgrado il calo dei tassi di fertilità registrato negli ultimi due decenni, secondo le stime la popolazione mondiale continuerà a crescere fino a stabilizzarsi intorno ai 10 miliardi di abitanti nel 2100. Una tendenza al rialzo si riscontra anche nei tassi di urbanizzazione. Oltre la metà della popolazione mondiale vive oggi nelle aree urbane. Nell’UE, circa i tre quarti delle persone abitano in aree urbane. Gli effetti si vedono in molte città europee, inclusa Madrid. La popolazione dell’area metropolitana di Madrid ha raggiunto i 6,3 milioni nel 2011.

Tutto cresce

Negli ultimi due decenni, la Spagna, come molti altri paesi europei, ha conosciuto una crescita economica costante, un aumento dei redditi e, fino a poco tempo fa, quella che sembrava essere la soluzione reale al problema della disoccupazione nel paese. L’espansione economica è stata alimentata da prestiti prontamente disponibili, pubblici e privati, dall’abbondanza di materie prime e dall’afflusso di migranti dall’America centrale e meridionale e dall’Africa. Quando è nato Carlos, ad eccezione di qualche rete informatica interconnessa, Internet, così come lo conosciamo oggi, non esisteva. I telefoni cellulari erano poco diffusi, ingombranti da portare con sé e troppo costosi per la maggior parte delle persone. Nessuno aveva mai sentito parlare di comunità virtuali e social network. Per molte comunità nel mondo, «tecnologia» era sinonimo di approvvigionamento di energia elettrica sicuro. Il telefono era caro e non sempre accessibile. Le vacanze all’estero erano riservate a pochi privilegiati. Nonostante alcune fasi di rallentamento economico registrate negli ultimi 20 anni, l’Unione europea è cresciuta del 40%, con medie leggermente superiori nei paesi che hanno aderito nel 2004 e nel 2007. Nel caso della Spagna, lo sviluppo dell’edilizia legata al turismo ha costituito un motore di crescita particolarmente importante. In altri paesi europei, la crescita economica è stata innescata anche da altri settori, fra cui quello dei servizi e l’industria manifatturiera. Oggi, Carlos vive ancora nello stesso appartamento insieme ai genitori. Possiedono un’auto e un cellulare a testa. Lo stile di vita della famiglia Sánchez non è insolito per gli standard europei.

Un’impronta ecologica mondiale più elevata

L’impatto dell’Europa sull’ambiente è cresciuto di pari passo con la crescita economica in Europa e nel mondo. Il commercio ha svolto un ruolo fondamentale nel favorire la prosperità in Europa e nei paesi in via di sviluppo, così come nel diffondere l’impatto ambientale delle attività che svolgiamo. Nel 2008, in termini di peso, l’Unione europea importava sei volte più di quanto esportasse. La differenza è quasi interamente dovuta al volume elevato delle importazioni di carburante e prodotti minerari.5

 «Per produrre gli alimenti di cui ci nutriamo ricorriamo a concimi e pesticidi derivati dal petrolio; quasi tutti i materiali da costruzione che usiamo — cemento, plastiche eccetera — sono derivati dai combustibili fossili, così come la stragrande maggioranza dei farmaci con cui ci curiamo; gli abiti che indossiamo sono, in massima parte, realizzati con fibre sintetiche petrolchimiche; trasporti, riscaldamento, energia elettrica e illuminazione dipendono quasi totalmente dai combustibili fossili. Abbiamo costruito un’intera civiltà sulla riesumazione dei depositi del periodo carbonifero. […] Le future generazioni, quelle  che vivranno fra cinquantamila anni, […] probabilmente ci battezzeranno “popolo dei combustibili fossili” e chiameranno la nostra epoca Età del carbonio, così come noi ci riferiamo a epoche passate come all’Età del ferro o all’Età del bronzo».

Jeremy Rifkin, presidente di Fondazione sulle Tendenze Economiche e consulente dell’Unione europea. Estratto dal libro «La terza rivoluzione industriale».

La politica funziona, quando è ben studiata e ben attuata

La crescente consapevolezza globale della necessità urgente di affrontare le questioni ambientali è nata assai prima del vertice della terra di Rio del 1992. La normativa dell’UE in materia di ambiente risale ai primi anni settanta e l’esperienza maturata da allora dimostra che, attuate in modo appropriato, le norme ambientali ripagano gli sforzi. Ad esempio, la direttiva uccelli (1979) e la direttiva habitat (1992) dell’UE forniscono un quadro giuridico per le aree protette dell’Europa. L’Unione europea include oggi nella rete di protezione della natura denominata «Natura 2000» più del 17% della sua superficie sulla terraferma e un’area marina di oltre 160.000 km2. Benché molte specie e molti habitat europei siano ancora minacciati, «Natura 2000» rappresenta un passo fondamentale nella giusta direzione. Anche altre politiche ambientali hanno avuto un impatto positivo sull’ambiente europeo. La qualità dell’aria ambiente è generalmente migliorata nel corso degli ultimi due decenni. Tuttavia, l’inquinamento atmosferico a grande distanza e alcuni inquinanti atmosferici emessi su scala locale continuano a danneggiare la nostra salute. Anche la qualità delle acque europee è migliorata in maniera significativa grazie alla normativa UE, ma la maggior parte degli inquinanti emessi nell’aria, nell’acqua e nel terreno non svanisce facilmente. Al contrario, si accumulano. L’Unione europea ha inoltre iniziato a tagliare il filo che unisce la crescita economica alle emissioni di gas a effetto serra. Le emissioni globali, tuttavia, continuano a crescere, contribuendo alla concentrazione di biossido di carbonio nell’atmosfera e negli oceani. Una tendenza analoga si riscontra nell’uso dei materiali. L’economia europea produce di più con meno risorse. Eppure, continuiamo comunque a utilizzare molte più risorse di quante la massa terrestre e i mari europei non possano fornirci. L’UE continua a generare ingenti quantità di rifiuti ma la quota avviata al riciclaggio e al reimpiego è in aumento. Purtroppo, quando si tenta di affrontare una problematica ambientale, ci si rende conto che in questo settore i problemi non possono essere considerati separatamente e uno per volta. Devono essere integrati all’interno delle politiche economiche, della pianificazione urbana, della politica della pesca e di quella agricola e così via. L’estrazione dell’acqua, ad esempio, compromette la qualità e la quantità dell’acqua alla fonte e a valle. Poiché la quantità d’acqua alla fonte diminuisce a causa di una maggiore estrazione, gli inquinanti emessi nell’acqua risultano meno diluiti e producono un impatto negativo più ampio sulle specie dipendenti da quel corpo idrico. Per pianificare e ottenere un miglioramento significativo della qualità delle risorse idriche, tanto per cominciare dobbiamo chiederci per quale ragione preleviamo l’acqua. 6

Cambiare passo dopo passo

Malgrado le nostre lacune conoscitive, le tendenze ambientali oggi in atto sollecitano un intervento immediato e decisivo  che chiami in causa responsabili politici, imprese e cittadini. In assenza di cambiamenti, la deforestazione globale  continuerà a un ritmo serrato e la temperatura media potrebbe aumentare di ben 6,4 °C a livello mondiale entro la fine del secolo. Nelle isole dai fondali bassi e lungo le zone costiere, l’innalzamento del livello del mare metterà a rischio una delle nostre risorse più preziose, la terra. I negoziati internazionali spesso durano anni prima di concludersi e di giungere

ad attuazione. Quando viene attuata integralmente, una normativa nazionale ben studiata funziona ma è limitata dai confini geopolitici. Molte questioni ambientali non sono circoscritte entro i confini nazionali. In ultima analisi, potremmo tutti percepire l’impatto della deforestazione, dell’inquinamento atmosferico o dello sversamento dei rifiuti in mare. Le tendenze e i comportamenti possono cambiare, un passo alla volta. Abbiamo una buona conoscenza di ciò che eravamo

20 anni fa e di ciò a cui siamo arrivati oggi. Possiamo non avere un’unica soluzione miracolosa che consenta di risolvere

tutti i problemi ambientali all’istante, ma abbiamo un’idea, anzi una serie di idee, di strumenti e di politiche, in grado di aiutarci a trasformare la nostra economia in un’economia verde. L’opportunità di costruire un futuro sostenibile nei prossimi 20 anni è pronta per essere colta.7

Cogliere l’opportunità

Cogliere o non cogliere l’opportunità che abbiamo davanti dipende dalla nostra consapevolezza comune. Possiamo imprimere lo slancio necessario a trasformare il nostro modo di vivere solo se capiamo qual è la posta in gioco. La consapevolezza cresce, ma non sempre basta. L’insicurezza economica, la paura della disoccupazione e le preoccupazioni per la salute sembrano dominare i nostri pensieri nel quotidiano. La situazione non è diversa per Carlos o per i suoi amici, soprattutto se consideriamo le turbolenze economiche in Europa. Fra le preoccupazioni per i suoi studi in biologia e le sue prospettive di carriera, Carlos non sa dire quanto la sua generazione sia consapevole dei problemi ambientali dell’Europa e del mondo. Tuttavia, abitando in città, riconosce che la generazione di suo padre e di sua madre

aveva un legame più stretto con la natura, perché nella maggior parte delle famiglie almeno uno dei genitori era cresciuto in campagna. Anche dopo essersi trasferiti in città per lavorare, conservavano una relazione più intima con la natura. Forse Carlos non avrà mai un simile legame con la natura, ma è felice di poter fare qualcosa: raggiungere l’università in bicicletta. Ha persino convinto suo padre a fare lo stesso per andare al lavoro. La verità è che l’insicurezza economica, la salute, la qualità della vita e persino la lotta alla disoccupazione dipendono tutte dal fatto di avere un pianeta sano. Il rapido esaurimento delle nostre risorse naturali e la distruzione di ecosistemi che tanto ci offrono difficilmente garantiranno a Carlos o alla sua generazione un futuro sicuro e sano. Un’economia verde e a basse emissioni di carbonio resta l’opzione migliore e più praticabile per garantire la prosperità economica e sociale a lungo termine.

Fonte: EEA (agenzia europea ambiente)

 

2. Il cammino verso la sostenibilità globale

È stata la conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente umano, tenutasi a Stoccolma nel 1972, a fornire alla comunità internazionale la prima occasione di incontro, con l’obiettivo di considerare come un tutt’uno le esigenze globali in materia di ambiente e di sviluppo. Il programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (UNEP), che nel 2012 celebrerà il suo 40º anniversario, è stato istituito alla conclusione di tale conferenza, al cui termine sono stati introdotti per la prima volta anche i ministeri dell’Ambiente di molti paesi del mondo. Lo sviluppo sostenibile assume svariati significati per le diverse persone. Tuttavia, a segnare una svolta è una definizione del 1987, secondo cui lo sviluppo sostenibile è «uno sviluppo che risponde alle esigenze del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare le proprie» (relazione della commissione Brundtland intitolata «Il nostro futuro comune»). Tali «esigenze» non comprendono soltanto gli interessi economici, ma anche i fondamenti ambientali e sociali su cui poggia la prosperità globale. Nel giugno 1992, i responsabili politici di 172 paesi si sono riuniti a Rio de Janeiro in occasione della conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente e lo sviluppo. Il loro messaggio era chiaro: «modificare i nostri atteggiamenti e i nostri comportamenti è l’unico modo per realizzare i cambiamenti necessari». Il vertice del 1992 è stato decisivo nel proiettare stabilmente sulla scena pubblica i problemi dell’ambiente e dello sviluppo. Il vertice della terra ha gettato le basi per numerosi e importanti accordi internazionali in materia di ambiente:

• l’Agenda 21, un piano d’azione per lo sviluppo sostenibile,

• la dichiarazione di Rio sull’ambiente e lo sviluppo,

• la dichiarazione sui principi concernenti le foreste,

• la convenzione quadro delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico,

• la convenzione delle Nazioni Unite sulla diversità biologica,

• la convenzione delle Nazioni Unite per la lotta alla desertificazione.

A vent’anni esatti dallo storico vertice di Rio, il mondo torna ancora una volta a confrontarsi e a decidere su come procedere. Quello del 2012 sarà il quarto vertice della terra e rappresenterà un’altra pietra miliare negli sforzi messi in campo dalla comunità internazionale per la realizzazione dello sviluppo sostenibile. L’economia verde e la governance globale in materia di ambiente sono in cima all’agenda.1

«Parlo per più della metà della popolazione mondiale. Siamo la maggioranza silenziosa. Ci avete dato un posto a sedere in questa sala, ma i nostri interessi non sono sul tavolo. Cosa si deve fare per poter partecipare a questo gioco? Bisogna appartenere a una lobby? Essere un’azienda potente? Avere denaro? È da quando sono nata che non fate altro che negoziare. Per tutto questo tempo, avete disatteso gli impegni, avete mancato gli obiettivi e avete infranto le vostre promesse».

Anjali Appadurai, studentessa presso il College of the Atlantic, parla a nome delle organizzazioni non governative giovanili il 9 dicembre 2011 a Durban (Sud Africa)

Giornata conclusiva della conferenza delle Nazioni Unite sul clima2

Non esiste una via facile e veloce per raggiungere la sostenibilità. La transizione richiede uno sforzo collettivo da parte dei responsabili politici, delle aziende e dei cittadini. In alcuni casi, i responsabili politici devono fornire incentivi per promuovere l’innovazione oppure offrire un sostegno alle aziende che rispettano l’ambiente. Altre volte, i consumatori possono essere chiamati a sostenere costi aggiuntivi derivanti da processi produttivi più sostenibili. Potrebbero persino dover diventare più esigenti nei confronti dei produttori dei loro marchi preferiti oppure scegliere prodotti più sostenibili. Le aziende potrebbero dover sviluppare processi produttivi puliti ed esportarli in tutto il mondo.

A problemi complessi, soluzioni complesse

La complessità delle nostre strutture decisionali globali rispecchia la complessità che si riscontra nell’ambiente. Trovare il

giusto equilibrio tra le leggi, le iniziative del settore privato e le scelte dei consumatori è un’impresa ardua. Altrettanto lo è

individuare il «giusto livello» su cui puntare, tra quello locale e quello globale. La politica ambientale diventa più efficace

se viene definita e attuata su diverse scale e il «giusto livello» varia a seconda del problema. Consideriamo la gestione

del patrimonio idrico. L’acqua dolce è una risorsa locale esposta a pressioni globali. Nei Paesi Bassi, ad esempio, la gestione delle risorse idriche è affidata agli enti locali ma è soggetta alla normativa nazionale ed europea. La gestione delle risorse idriche nei Paesi Bassi non deve solo affrontare le problematiche locali e guardare a quanto accade nei paesi a monte. Secondo le previsioni, il surriscaldamento del pianeta provocherà l’innalzamento del livello dei mari, il che

significa che gli enti responsabili della gestione delle risorse idriche nei Paesi Bassi devono iniziare a pianificare in base

ad esse. Le politiche e le istituzioni mondiali esistenti, incluso l’UNEP, sono nate, nella maggior parte dei casi, perché le soluzioni individuate a livello locale o nazionale non erano in grado di far fronte ai problemi e da un coordinamento globale o internazionale si attendevano risultati migliori. L’UNEP è stato istituito a seguito della conferenza di Stoccolma perché i partecipanti erano concordi nel ritenere che alcune tematiche ambientali avrebbero trovato una risposta migliore a livello globale. 3

Estratto della dichiarazione di Rio sull’Ambiente e lo Sviluppo

Conferenza delle Nazioni Unite sull’Ambiente e lo Sviluppo, 3–14 giugno 1992, Rio de Janeiro, Brasile

Principio 1

Gli esseri umani sono al centro delle preoccupazioni relative allo sviluppo sostenibile. Essi hanno diritto a una vita sana e produttiva in armonia con la natura.

Principio 2

Conformemente alla Carta delle Nazioni Unite e ai principi del diritto internazionale, gli Stati hanno il diritto sovrano di sfruttare le proprie risorse secondo le loro politiche ambientali e di sviluppo e hanno il dovere di assicurare che le attività sottoposte alla loro giurisdizione o al loro controllo non causino danni all’ambiente di altri Stati o di zone situate oltre i limiti della giurisdizione nazionale.

Principio 3

Il diritto allo sviluppo deve essere realizzato in modo da soddisfare equamente le esigenze relative allo sviluppo e ambientali delle generazioni presenti e future.

Principio 4

Al fine di pervenire a uno sviluppo sostenibile, la tutela dell’ambiente costituirà parte integrante del processo di sviluppo e non potrà essere considerata separatamente da questo.

Principio 5

Tutti gli Stati e le persone coopereranno al compito essenziale di eliminare la povertà, come requisito indispensabile per lo sviluppo sostenibile, al fine di ridurre le disparità tra i tenori di vita e soddisfare meglio i bisogni della maggioranza delle popolazioni del mondo.

 

Impegno rinnovato cercasi

Oggi il commercio globale fa sì che molti di noi possano mangiare pomodori e banane tutto l’anno e usufruire di prodotti che riuniscono insieme componenti provenienti da tutto il mondo. Una simile connettività offre numerosi vantaggi ma può comportare anche alcuni rischi. L’inquinamento provocato da un’altra persona può andare a finire nel giardino di casa nostra. Ciò significa che non possiamo ignorare le nostre responsabilità nella tutela di un ambiente globale. La convenzione quadro delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico (UNFCCC) rappresenta una delle conquiste del vertice della terra di Rio del 1992. Il suo obiettivo è stabilizzare le emissioni di gas a effetto serra, che contribuiscono al cambiamento climatico. Il successo di numerosi accordi internazionali, fra cui l’UNFCCC, dipende dalla partecipazione dei soggetti interessati. Purtroppo, se ad assumersi l’impegno sarà soltanto un numero ristretto di paesi, difficilmente ciò sarà sufficiente a proteggere l’ambiente, anche qualora i pochi aderenti rispondessero appieno ai principi dell’economia verde. Il vertice di quest’anno offre l’opportunità di rinnovare l’impegno globale per la sostenibilità. Come cittadini, consumatori, scienziati, imprenditori, responsabili politici, noi tutti dobbiamo assumerci la responsabilità delle nostre azioni, e delle nostre inazioni.

Fonte: EEA (agenzia europea ambiente)

 

Editoriale 1. Rendere più verde la nostra economia

Immagine

 

La maggior parte delle persone ricorderà il 2011 come un anno di turbolenze finanziarie, ricorderà il terremoto, lo tsunami e il disastro nucleare in Giappone, i salvataggi finanziari in Europa, le proteste di massa della Primavera araba, il movimento Occupy Wall Street e gli Indignados spagnoli. Pochi ricorderanno che è stato anche l’anno in cui gli scienziati hanno scoperto oltre 18.000 nuove specie sul nostro pianeta. Ancora meno sono in grado di menzionare una specie dichiarata estinta. A prima vista, il destino delle specie minacciate sembrerebbe un mondo lontano dall’economia. Tuttavia, ad un’analisi più attenta, le connessioni tra i due sono più evidenti. La «buona salute» dei sistemi naturali è una condizione necessaria per la «buona salute» dei nostri sistemi sociali ed economici. Si può affermare che la società prospera se è esposta all’inquinamento atmosferico e idrico e ai relativi problemi di salute? Allo stesso modo, può una società «funzionare» se un’ampia parte di essa non ha un lavoro o non riesce ad arrivare a fine mese? Nonostante le lacune e le incertezze nella nostra comprensione, è chiaro che il mondo sta cambiando. Dopo 10.000 anni di relativa stabilità, la temperatura media globale è in aumento. Anche se le emissioni di gas serra dell’Unione europea sono in diminuzione, i combustibili fossili rilasciano più gas serra nell’atmosfera di quanti la terra o gli oceani ne possano assorbire. Alcune regioni sono più vulnerabili ai potenziali impatti del cambiamento climatico e spesso si tratta dei paesi meno preparati ad adattarsi alle nuove condizioni climatiche. Con oltre sette miliardi di persone sul pianeta, gli uomini svolgono chiaramente un ruolo importante nella conduzione e nell’accelerazione di tale cambiamento. Infatti, i nostri livelli attuali di consumo e produzione possono danneggiare l’ambiente al punto tale che rischiamo di rendere la nostra casa inabitabile per molte specie, inclusa la nostra. Molte persone, nei paesi in via di sviluppo, aspirano a stili di vita simili a quelli dei paesi sviluppati, il che potrebbe sottoporre i nostri sistemi naturali a ulteriori pressioni. Stiamo perdendo la biodiversità globale a un tasso mai visto prima. I tassi di estinzione potrebbero essere 1.000 volte maggiori dei tassi registrati in passato. La distruzione degli habitat costituisce una delle cause principali. Anche se negli ultimi decenni la superficie forestale totale in Europa è aumentata, a livello globale la situazione è differente. L’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura stima che ogni anno circa 13 milioni di ettari delle foreste mondiali (corrispondenti grosso modo alle dimensioni della Grecia) vengono abbattuti e il suolo viene convertito ad altri utilizzi, quali i pascoli per i bovini, le attività minerarie e agropastorali o lo sviluppo urbano. Ma le foreste non sono gli unici ecosistemi  minacciati. Esistono molti altri habitat naturali a rischio a causa delle attività umane.

Prospettive per il futuro: un’economia verde inclusiva

Poiché la principale preoccupazione quotidiana di miliardi di persone è quella di mettere del cibo sulla tavola e mandare

i figli a scuola nella speranza di un futuro migliore, per molti è pressoché impossibile evitare di adottare soluzioni a breve

termine. A meno che non vengano offerte loro altre soluzioni migliori…È evidente che le nostre attività economiche necessitano di risorse naturali. Ma ciò che può essere percepito come un dilemma (la scelta tra la tutela dell’ambiente e lo sviluppo dell’economia) è di fatto fuorviante. Nel lungo termine, lo sviluppo sociale ed economico necessita di una gestione sostenibile delle risorse naturali. Alla fine del 2011 nell’Unione europea una persona su dieci era disoccupata. Il rapporto corrisponde a più di uno su cinque per quanto riguarda i giovani. La disoccupazione mette a dura prova le persone, le famiglie e la società nel loro complesso. Nel 2010, circa un quarto della popolazione dell’Unione europea (UE) era a rischio povertà o esclusione sociale. I tassi di povertà globale sono anche più alti. I nostri attuali modelli economici non sono in grado di dimostrare i numerosi benefici di un ambiente sano. Il prodotto interno lordo (PIL), l’indicatore economico usato più comunemente per esprimere il livello di sviluppo di un paese, lo standard di vita e la condizione rispetto agli altri paesi, si basa sul valore della produzione economica. Non include il prezzo sociale e umano che paghiamo per gli effetti collaterali dell’attività economica, come l’inquinamento atmosferico. Al contrario, i servizi sanitari forniti a coloro che sono affetti da malattie respiratorie sono considerati un contributo positivo al PIL. La sfida consiste nello scoprire come è possibile ridisegnare i nostri modelli economici, così da che generare crescita e migliorare la qualità della vita nel mondo senza danneggiare l’ambiente e proteggendo, al contempo, anche gli interessi delle generazioni future. La soluzione si chiama «economia verde». Anche se sembra un concetto semplice, tradurre l’idea nella realtà è ben più complicato. Chiaramente, sarà necessaria un’innovazione della tecnologia. Ma saranno necessari anche molti altri cambiamenti, legati al modo in cui organizziamo le aziende, progettiamo le città, spostiamo le persone e le merci; in una parola, al modo in cui viviamo. Se si dovesse porre la questione in termini imprenditoriali, sarebbe necessario garantire la sostenibilità a lungo termine in tutti i settori connessi alla creazione di ricchezza: capitale naturale, capitale umano, capitale sociale, capitale industriale nonché capitale finanziario. Il concetto di economia verde può essere spiegato anche tramite questi capitali distinti, sebbene interconnessi. Nel valutare i costi e i benefici delle nostre decisioni, è necessario osservare gli impatti su tutto il capitale azionario. Gli investimenti nelle strade e nelle fabbriche  possono aumentare il nostro capitale artificiale, ma possono di fatto mettere a repentaglio la nostra ricchezza generale se comportano la distruzione delle nostre foreste (parte del nostro capitale naturale) o il danneggiamento della sanità pubblica (parte del capitale umano).

Opportunità future

Cambiare il nostro modo di vivere, di produrre e di consumare apre di fatto un nuovo mondo di opportunità. Segnali  ambientali 2012 vi offrirà una panoramica del punto in cui siamo oggi, esattamente vent’anni dopo il vertice della terra di Rio del 1992, in Brasile. Verrà esaminato il modo in cui l’economia e l’ambiente sono connessi e i motivi per i quali abbiamo bisogno di un’economia «verde». Verrà inoltre fornito uno sguardo sull’ampia varietà di opportunità a disposizione. Non esiste un’unica soluzione che contribuisca ad un rapido cambiamento o che si adatti a tutto. Oltre agli obiettivi generali comuni relativi alla gestione efficace dei rifiuti, la gestione dei rifiuti in Groenlandia potrebbe dover affrontare una realtà completamente diversa rispetto a quella del Lussemburgo. La tempistica svolge un ruolo fondamentale. Oggi abbiamo bisogno di soluzioni che affrontino i problemi ambientali con la tecnologia odierna, tenendo presente che le nostre politiche e le nostre decisioni imprenditoriali dovranno essere costantemente migliorate e adattate per stare al passo con la nostra crescente comprensione dell’ambiente e con gli sviluppi tecnologici. Tuttavia, abbiamo già a disposizione molte soluzioni, e molte altre sono in fase di preparazione.

Una questione di scelte

In ultima analisi, sarà di una questione di scelte, scelte politiche, imprenditoriali e di consumo. Ma come possiamo scegliere l’opzione migliore? Disponiamo delle informazioni e degli strumenti necessari per sviluppare politiche appropriate? Stiamo affrontando la questione nel modo «giusto»? Disponiamo degli incentivi o dei segnali di mercato «giusti» per investire nelle energie rinnovabili? Disponiamo delle informazioni o delle etichette «giuste» sulle merci che acquistiamo così da poter optare per un’alternativa più verde? Ciò che sappiamo e il momento in cui acquisiamo tale conoscenza sarà strumentale ad aiutare diverse comunità a effettuare le scelte «giuste». In ultima analisi, la conoscenza ci metterà nella condizione di proporre nuove soluzioni e creare nuove opportunità, condividendole con altri.

Prof.ssa Jacqueline McGlade

Direttrice esecutiva

Fonte: AEA (agenzia europea ambiente)